I thrasher bergamaschi Nirnaeth sono un’entità complessa: non solo per la loro storia trentacinquennale, che vede come unico superstite di una ventina di formazioni diverse il batterista, cantante e tastierista Marco Lippe (un polistrumentista attivo su molti fronti, tra cui il prog rock dei Twenty Four Hours) ma anche per l’essere riusciti a incarnare simultaneamente personalità musicali molto diverse, proponendosi oltre che come metallari devoti al tupatupa, anche in veste di Nirnaeth Space Lab con improvvisazioni e jam di impronta progressive, dimostrando una indubbia originalità e versatilità.
“Il Paradiso Non È Altrove” è il loro quarto album e devo ammettere che, date anche le lusinghiere premesse, l’ascolto mi ha lasciato spiazzato sotto diversi aspetti.
Se musicalmente siamo di fronte ad un Thrash Metal vintage, pulito e lineare, solido e competente ma mai veramente furioso o particolarmente estremo, basato sui riff scritti dai due chitarristi di turno, ciò che colpisce veramente sono i testi di Lippe, cantati con voce assertiva e declamatoria, intrisa di pathos e genuinamente portatrice delle proprie istanze.
Ora, se le parole “boomer” e “cringe” dovessero aver bisogno di materiale per essere spiegate ed argomentate, questo album ne potrebbe offrire a volontà… ma dato che io ho quarantasei anni e di questa neolingua e dei suoi intenti generazionalmente divisivi me ne fotto, cercherò di contestualizzare in altro modo quella sensazione di stridente disagio che ho avvertito nel sentire queste canzoni, preferendo concentrarmi invece su un ingrediente fondamentale che qui trovo in abbondanza e di cui spesso lamento la carenza: una autentica urgenza comunicativa!
E la vicinanza di Marco ai ricorrenti temi dell’ecologia, dell’ambientalismo, dell’ingiustizia e dell’insofferenza verso la inesauribile stupidità umana, ci viene sbattuta in faccia in tutta la sua focosa verve adolescenziale. Mi colpisce l’intransigenza, la veemenza, ma a volte anche la vera e propria banalità delle argomentazioni e delle forme stilistiche scelte. Spesso si scivola nel predicozzo paternale o in un generico naturismo umanoclastico, indulgendo su giochi di parole dalla raffinatezza discutibile, con una sensazione di deja vù che mi riporta agli anni dell’adolescenza e della sua ingenua ribellione pseudoanticonformista.
Rimane comunque una sana capacità di indignarsi di fronte a ciò che si trova moralmente, eticamente o socialmente inaccettabile, indipendentemente dal punto di vista.
Veniamo ai brani. “Wounded Knee” non è solo un’intro, ma un vero brano strumentale con un suo sviluppo ed una malinconica coda di pianoforte, che ci introduce uno degli argomenti cari alla band: lo sterminio dei nativi americani. Il dito puntato continua nei brani successivi e su “La Vendetta del Bosco” tocca agli uomini cattivoni che aggrediscono la foresta senza rispettarne gli equilibri. E siamo tutti d’accordo. Eppure…
Il testo appare forzato, sia come metrica sia come contenuti e mi lascia una sensazione di profondo disagio: sembra scritto da un ragazzino arrabbiato. Musicalmente abbiamo un Thrash svelto dai riff piuttosto ordinari, messi comunque in secondo piano dall’intensa e istrionica performance vocale di Lippe, che padroneggia bene anche il range acuto. “Genativocidio” torna sull’argomento iniziale, incorniciando in un classico stop’n’go americaneggiante alla Anthrax un testo che inchioda lo statunitense medio alle proprie responsabilità. Bello il riff centrale che fa da base all’assolo e che verrà riutilizzato con successo nel gustoso gioco di pause che precede l’ultima strofa, ma il testo è veramente terrificante. E non mi riferisco ai neologismi come “sionazisti” e “nazislamisti”, ma alla scrittura ed alla conseguente interpretazione canora che straborda nel grottesco. Si prosegue in maniera molto omogenea sulla tirata “World Wild Web”, dove con un cantato quasi hardcore e la consueta voce secca e asciutta, lasciata nuda e cruda senza quasi effetti, senza raddoppi o armonie (giusto qualche coro da gang) Marco ci insegna a stare al mondo. Musicalmente è forse il brano più tirato del disco e scorre liscio e gradevole nelle sue agili sezioni strumentali, lasciandoci lì ad implorare invano almeno qualche goccia di autoironia che possa arrivare a salvare la situazione.
Sempre all’interno dell’atmosfera di perplessità generata dai testi (qui sfioriamo il delirio), “Epitaffio Di Una Pianta” ci offre una nuova dimensione musicale, non distante dai Saint Vitus con Wino, con un andamento cadenzato di grande fascino, mentre attendiamo la lenta ed inesorabile vendetta delle piante che potrebbero smettere di produrre ossigeno per i loro carnefici. Il finale su quelle che sembrano le note di “and she’s buying a stairway to heaven” lascia interdetti.
Non mi fraintendete, io in teoria sposerei molte delle cause adombrate dall’autore, ma il modo in cui vengono esposte e argomentate mi fa seriamente riconsiderare la validità di certe posizioni.
Si torna a pestare sulla doppia cassa con “Religionestenzione”, che sembra però avere quasi intenti demenziali. A cavallo tra Fratello Metallo ed Elio, ma con la cerea consapevolezza che non si sta scherzando affatto… Anche volendo sforzarsi di concentrarsi solo sull’aspetto musicale, l’originalità latita e non c’è un solo riff candidato a resistere alla prova del tempo.
Con un’intro che mi rievoca i Testament di “The Gathering” abbiamo la clamorosa “Pescecani”, che vi lascerà basiti man mano che sentirete procedere i versi: vi sfido ad ascoltarla senza ridere. O piangere.
C’è spazio anche per una cover e il brano scelto è “Angel” dei The Danse Society. Qui la monotonia che nell’originale versione elettrowave poteva trovare una giustificazione stilistica, si traduce in un pedante ripetersi di un riffaccio senza mordente che la rende, come brano thrash, mediocre.
Si torna a lamentarsi dei giovani su “Generation Interdict”, una canzone dalla costruzione musicale efficace, in cui colpisce l’inciso recitativo vocale centrale e il finale ipnotico. Certo, la tara della parte cantata è da mettere in conto.
La title track invece è stata la chiave che mi ha fatto riconsiderare il disco. “Il Paradiso Non È Altrove” è proprio una bella canzone! Qui Lippe mi ricorda una sorta di Manuel Agnelli, magari meno raffinato, ma anche meno artificioso e più onesto. La composizione resta un’oscura e scarna ballata intimista cantautorale in cui l’autore si confessa e si confida con una trasparenza che non lascia indifferenti. Gli argomenti sono gli stessi propugnati in maniera così poco efficace nelle precedenti canzoni, ma qui troviamo finalmente una dimensione credibile e condivisibile, non così deragliante e sopra le righe.
Imbarazzo.
È ciò che ho provato per quasi tutto il tempo dedicato agli ascolti di questo album. Ma cosa determina l’imbarazzo? Un comportamento fuori dal consueto, dall’ ordinario, dall’opportuno. E beh, se non è l’arte, la musica in particolare, il Metal soprattutto, ad imbarazzarci mettendoci di fronte alla nostra abitudine al conformismo, cosa lo dovrebbe fare? Ci siamo talmente abituati alla normalità, al fatto che il Metal “debba” suonare in un certo modo, da esserci dimenticati che ciò che ce lo ha fatto amare in prima battuta era proprio la sua diversità, la sua capacità di rispondere in maniera atipica agli stimoli del mondo.
E, ripensandoci, io di dischi con questa forza di personalità ne vorrei ascoltare molti di più.
Marcello M
Tracklist:
- Wounded Knee
- La Vendetta Del Bosco
- Genativocidio
- World Wild Web
- Epitaffio Di Una Pianta
- Religionestinzione
- Pescecani
- Angel (The Danse Society cover)
- Generation Interdict
- Il Paradiso Non È Altrove
- Anno: 2024
- Etichetta: Andromeda Relix
- Genere: Thrash Metal d’autore
Links: