Questo terzo album dei modenesi Psychostasy è frutto del lavoro del factotum Francesco Pini, che si occupa di suonare, produrre, mixare e confezionare il tutto e del socio Andrea Piro, che mette a disposizione voce e testi.
Il genere proposto è un Metal moderno e preciso, dalle tipiche cadenze djent e con velleità progressive, con una voce prevalentemente growl che lo fa rientrare nel calderone “death”. Come tutti i progetti “da studio” di questo genere, alla batteria non abbiamo un musicista umano, ma devo riconoscere che Mr. Pini ha fatto un lavoro di programmazione egregio, dinamico e creativo, nonostante i limiti imposti dalla situazione.
Mi sono reso conto, durante i primi ascolti del disco, di come la mia soglia di attenzione fosse drammaticamente bassa, lasciandomi distratto e spaesato a pensare ad altro, mentre continuava quel macinare di riff prevedibilmente imprevedibili, melodie oblique e soprattutto quel berciare continuo e monocromatico della voce.
Veramente quindi vedevo confermati i miei pregiudizi nei confronti di questo genere nato come una sorta di prodotto di scarto dell’industria Meshuggah? Eh, sarebbe stata la scelta più facile, considerando che il certosino lavoro profuso in “The Inner Beyond” non sfonda mai i confini della normalità di genere, proponendo (per quanto in maniera molto professionale e competente) esattamente quello che ci si potrebbe aspettare, in termini di suono e di “scelta delle note”. Se poi aggiungiamo la zavorra di quel ripetitivo growlare senza meta apparente…
Eppure c’era un’innegabile qualità di fondo, lì sotto il pelo dell’acqua, che era impossibile ignorare, così ho provato ad affrontare l’album un brano alla volta, per mantenere la concentrazione sulle singole composizioni ed evitare di cadere vittima dell’effetto ipnotico e apatizzante subìto in occasione dei primi ascolti.
In effetti, prese singolarmente, tutte le composizioni presentano elementi molto ben fatti, capaci di trovare la strada verso la comprensione e l’apprezzamento in misura proporzionale al tempo e all’attenzione che vorrete dedicare loro. E così scopro che “Ignition” non solo accende il disco con un grande impatto sonoro, ma si sviluppa nella seconda parte dei suoi tre minuti scarsi in un’epicità melodica della cui efficacia non mi ero accorto. Il tema di “Hypernova” non è originalissimo, ma rimane in testa; le strofe allentano la tensione e l’effetto rimbalzoso djent conferisce una piacevole gommosità anche se, su un minutaggio più consistente, il cantato si fa davvero indigeribile. Un assolo astuto, scivoloso e imprevedibile come un’anguilla elettrica precede una sezione di quiete, prima della tempesta del ritornello finale.
Poi scopro anche che “Absolute Zero” ha un riff veramente bello, con un andamento che sembra un serpente che scende le scale, strofe e bridge frammentati e ben caratterizzati ritmicamente, poi una melassa centrale con un assolo contorto e vermiforme e una bella compilation di accentazioni spostate che puntellano il brano fino al finale, come un gigantesco droide quadrupede azzoppato, alla conquista di un nuovo equilibrio.
La produzione curata nel dettaglio consente un reale godimento nell’ascolto in cuffia ad alto volume, con i bass boom che spanciano nei breakdown, chitarre nitide e presenti, un basso pieno e schioccante, la monotona vociona in primo piano e i campioni di batteria che pompano.
“Observer” gioca la carta dell’effetto jazzato (accordini puliti rarefatti su base ritmica shuffle sincopata), riuscendo a gonfiarsi e ingrossarsi con grande naturalezza fino ad un pienone che non aggiunge niente di nuovo, ma innegabilmente ben fatto.
Riffaccio viscoso e raffiche di doppia cassa e blast per “Levitate”, che sembra un po’ un catalogo di rappresentanza stilistica per gli Psychostasy, in cui possiamo apprezzare la bontà della materia prima all’interno di un brano dimostrativo, che piace senza entusiasmare.
Si riprende il respiro sulla strumentale “Out Of Orbit”, in cui ritroviamo la maestria nel dosare il crescendo di intensità, dagli arpeggi iniziali ai ritmi insistiti sui crash, con una gustosa codina di blast, con lunga frenata sul ghiaione.
“Ticking Clock” ha i suoi momenti più interessanti alle estremità: una bella variazione sul tema dell’orologio che fa tic toc all’inizio, e il rush finale in conclusione. In evidenza il lavoro del basso, ma un po’ di noia nella sezione centrale, slavata giusto dai fuochi d’artificio durante l’assolo.
I quattordici minuti di title track incominciano con bicordi pizzicati in una desolazione lunare rotta dal vocione di Piro, mentre un filtro vocale che sa di fantascienza vintage ci presenta brevemente la versione intimista e melodica del cantante. La sezione più muscolare della suite inizia con piglio deciso e fa subito la ruota come un pavone dalla coda a coltellino svizzero, mostrandoci tanti gadget che sul momento affascinano, ma che sappiamo benissimo che non utilizzeremo mai veramente… Un quarto d’ora è lungo e succedono molte cose. Sicuramente ci sarà un filo narrativo capace di giustificare il tutto, anche se il growl non aiuta lo storytelling, lasciandoci liberi di fraintendere ciò che meglio crediamo. O anche di distrarci pensando ad altro. A metà esatta del brano abbiamo un momento di grande intensità, l’apice di un crescendo ben architettato, ma questo piccolo patrimonio emotivo viene dilapidato nei minuti successivi, nei quali si fa davvero fatica a ravvisare la stessa tensione, mentre la conclusione del disco arriva sfumando, come palpebre assonnate che si chiudono.
Non è la mia tazza di the, ma credo che gli appassionati del genere troveranno, nella qualità e nella cura di questo album, alimento per soddisfare la propria fame di caos controllato e organizzato.
Marcello M
Tracklist:
- Ignition
- Hypernova
- Absolute Zero
- Razor Dust
- Observers
- Levitate
- Out Of Orbit
- The Ticking Clock
- The Inner Beyond
- Anno: 2024
- Etichetta: Autoprodotto
- Genere: Progressive Death Metal, Djent
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