Torna nel mio lettore un altro prodotto della combo Masked Dead records/Suphur music, entità bifronte che si sta imponendo nel proporre contenuti di qualità attraverso la produzione di contenuti musicali e “divulgativi” di qualità. Stampato su nastro e allegato al numero “Linguas Diaboli” di Sulphur fanzine, “Voces Antiqui Sanguinis” propone uno split a quattro: Strja-Ticinum-Kre^u-Vrim, formazioni dedite ad un black metal cantato in lingua autoctona e/o dialetto regionale.
Senza perdermi in digressioni sulla questione del cantato in lingua madre nel black metal come risposta risonante alle suggestioni delle formazioni nord-europee che abbandonarono a suo tempo l’utilizzo dell’inglese, l’utilizzo del dialetto regionale mi era noto al momento solo per i lavori di Inchiavatu, dei Malnatt e (ma qui più a livello di episodio isolato) per “Umbari chi spacchiu si” degli Incinerator.
Quello che si vuole presentare qui invece è un organico coeso riunitosi, pur nella diversità di approccio ad una comune matrice black metal (da intendersi in chiave molto ampia), “per cantare l’identità culturale e storica della propria terra”.
Al di là delle intenzioni manifeste in tal senso, l’interesse che ho rintracciato in questo lavoro è da ricondursi proprio dalle interpretazioni, dal punto di vista squisitamente musicale, offerte dalle quattro formazioni di un genere tra i più canonizzati e i più decostruiti del metal estremo.
I due contributi rilasciati dagli Strja risultano piuttosto differenti tra loro, sia a livello di produzione che di approccio stilistico e compositivo. La prima traccia “Instrià” vive di due anime, una caratterizzata da una ritmica di stampo speed metal/proto thrash, piuttosto ruvida ed essenziale, l’altra dal respiro quasi dark wave, caratterizzata da una melodia e da una progressione che mi ha ricordato l’OST di “28 giorni dopo”. Melodia che in realtà viene progressivamente “suggerita” nella prima sezione per poi esplodere nella sua compiutezza nella seconda sezione. Come un atto teatrale in tre atti, è nel “terzo tempo” che le due anime si fondono compiutamente. La produzione è piuttosto ruvida così come il cantato, una sorta di yell acido che si mantiene nei registri medi. Le metriche vocali sono quelle “canoniche” del black cantato in italiano, il contributo del dialetto veronese si limita al testo ma non incide particolarmente sulla resa complessiva.
Ne “La Siora dei Troni e delle Site” si conferma l’influenza “new wave” che va a fondersi con un approccio “post black” delle ritmiche spezzate di chitarra supportate dal blast beat. Alla produzione meno ruvida si associa un gusto più raffinato degli arrangiamenti che vanno a stratificarsi su un gioco di contrappunto ritmico tra sezioni in blast beat e sezioni up tempo su cui aprono cori in clean a più voci a rispondere al cantato sempre ruvido e delle interessanti tessiture melodiche di solista su power chords dilatati. Episodio senz’altro più maturo del precedente e che lascia ben sperare che questa sia la linea maestra intrapresa dagli Strja.
Con i Ticinum ci approcciamo al dialetto pavese. E ad un deciso cambio di registro, sia in termini di produzione che di approccio musicale. “La Cacia ad Godan” ha un incipit riflessivo di chiara marca folk che, dopo due battute affidate ad un giro di basso e due all’ingresso di un tema di fisarmonica, entra nel vivo con l’ingresso delle chitarre distorte e di uno scream acido e rabbioso. Quando si parte in up tempo emergono contributi disarmonici molto interessanti sviluppati da un mandolino (banjo?) in contrappunto. Il corpo della canzone si sviluppa su una tessitura piuttosto caotica in cui il tema folk viene conteso dalla chitarra e dalla fisarmonica e, in un certo senso, dalla voce su tre metriche differenti. Un’anima anarco-progressive pervade la composizione tra cavalcate di stampo maideniane e rallentamenti che riprendono, ripartito su diversi strumenti e cori che inanellano litanie, il tema principale. Con i Ticinum direi che più che l’uso del dialetto, che forse agevola le metriche del cantato, declinato in uno scream selvaggio e dionisiaco, è l’approccio strumentale a sorprendere nel suo trattare degli “standard” folk piuttosto canonici e di ispirazione celtica, ad un post-black destrutturato e folle. Dato il tema della canzone, e della bestia che si sta cacciando viene anche portato il grugnito nel finale, è la perfetta rappresentazione di una “caccia selvaggia”, del frastuono che i cacciatori fanno per stanare la preda.
Il tema portante di “Pavia Brusa, la Stria” ha tomi più epici ed enfatici, caratteristici di un’epica guerriera, ben sostenuti dall’incalzare delle linee vocali e dalla linea melodica portata dalla fisarmonica come un bordone dilatato. L’andamento del cantato, qui si percepisce meglio il dialetto, è quello di una filastrocca o, meglio, di una classica ballad in cui si narrano gesta epiche e leggendarie. Molto bella la sezione introdotta da un lick ricorsivo di fisarmonica, che reinterpreta certe soluzioni di melodic death/black, e spinge la ritmica verso una cavalcata imperiosa. La sezione finale riesce a far sintesi di un’impronta maideniana con quelle sospensioni epiche introdotte dai Bathory con “Blood Fire Death” e a riportarla, senza soluzione di continuità, nel solco del folk dominato dalle sonorità della fisarmonica.
Con “Accabbadòra”, i Kre^u mettono subito le cose in chiaro. Una produzione cristallina e corposa mette in evidenza uno stile unico che affonda le proprie radici in un folk atipico, ancestrale. L’incipit in tremolo picking sembra presentare un canonico riff dal sapore in bilico tra il folk e medievalleggiante, contraddetto prima dalle punteggiature della sezione ritmica, cassa, crash stoppato e basso dal sapore bandistico, poi dall’ingresso della chitarra che introduce un riff a note che segue geometrie armoniche e ritmiche veramente singolari. La metrica delle linee vocali e l’incedere della sezione ritmica evocano una marcia incalzante e qui l’uso del sardo completa la sensazione di essere alla presenza di una tradizione musicale ancestrale, proiettata nel futuro da una sensibilità progressive molto raffinata. Un lavoro fatto di sfumature piuttosto che di elucubrazioni virtuosistiche. La struttura infatti è quella classica dei mid tempo black metal intramezzati da aperture arpeggiate in low tempo e conseguenti variazioni in crescendo. Ma le singole sezioni sono pregne di trame melodiche e armoniche che sconcertano per la loro originalità. Le linee vocali, divise tra un clean perentorio e rauco e uno più delicato e lirico, sono decisamente ipnotiche.
“Ma^iardzas” conferma il ruolo della chitarra nel condurre le danze con articolate linee melodiche, sapientemente mutate in linee ritmiche che ne estrapolano le fondamenta armoniche. I ruoli tra chitarre e sezione ritmica sono strutturati in modo esemplare, tanto a livello metrico che di scelta delle frequenze. Rispetto alla traccia precedente emerge un afflato più epico, supportato da un lato da un maggior uso degli up tempo, dall’altro da una più decisa presenza di linee vocali liriche. Se “Accabbadòra” trasmetteva un forte legame con la terra, la determinazione a percorrere con passo deciso un suolo aspro, in “Ma^iardzas” è una corsa epica che sfiora l’estasi del volo. Ma forse è proprio l’estrema libertà dimostrata nello sviluppare e articolare una così folta serie di variazioni senza soluzione di continuità, in una coesa armonia tra sezione ritmica e cangianti linee chitarristiche, a regalare questa sensazione. L’immagine di un bambino che corre stringendo il filo di un aquilone che sobbalza nel vento e cambia direzione senza mai perdersi.
Chiudono i Vrim che cantano in dialetto piemontese, nonostante il recitato che apre “Ij Lìngher Vendicator” mi sembri di cadenza toscana. Ma trattandosi del resoconto di un inquisitore, può darsi si tratti di marcare la differenza con la tradizione locale, forse di ispirazione catara. Dal poco che intuisco del testo si tratta infatti della contrapposizione tra il “potere di roma” e “le nostre montgne”.
Dal punto di vista musicale i Vrim propongono un convincente connubio di atmosfere, armonie e linee “melodic black” e un solido impianto heavy/epic metal. Non mancano accelerazioni in skank beat a la Necrophobic, ma il sapore che sento è quello pregno di epicità tipico di formazioni classiche da un lato (i Saxon di “Crusader”, gli Adramelch italiani degli esordi) e, dal punto di vista di certi fraseggi chitarristici, di un certo speed metal in transizione verso il thrash metal (ci sono riff che ricordano quelli di caratteristici di Mustaine). In qualche frangente mi hanno ricordato, in termini di rilettura in termini contemporanei del metal classico, la proposta de “La Janara”. Forse per le suggestioni oscure, mutuate dallo spirito degli “Opera IX” che questa formazione propone. Certo nei Vrim sono ben chiare le coordinate black metal sia, come già detto, per le scelte armonico/melodichee che per il piglio esecutivo e l’interpretazione del cantato che propone uno yell strutturato epicamente nella metrica e nelle linee melodiche a conferire un’efficace aura evocativa.
Con “L’òra ant el Kali-Yuga” ci si sposta su un territorio più marcatamente melodic black, con velocità più sostenute ed un efficace inanellarsi di lick a note, assecondati dalla sezione ritmica che si districa tra rapidi skank beat e up tempo in doppia cassa, e brevi incastri rallentati, nel costruire una buona articolazione del songwriting. Nell’immancabile sezione centrale, un mid tempo sembra recuperare vaghe suggestioni folk proponendo un tema di chitarra che echeggia nell’incipit il famoso solo di sinth dei PFM di “Impressioni di Settembre”. Una traccia davvero convincente questa che si prende il tempo, nei suoi oltre 9 minuti, di sviluppare compiutamente i temi melodici, di variarli armonicamente e metricamente, costruire efficaci divagazioni e tornare sulle sezioni portanti. Sugli scudi tutta la sezione strumentale, il gran lavoro delle chitarre, sia sul piano ritmico che solistico (sempre al servizio della canzone e mai dimostrativo) e una sezione ritmica precisa e puntuale. L’approccio vocale anche qui “si veste” di black metal assumendo toni rauchi e autorevoli, ma metrica e sviluppo melodico lo fanno percepire in termini epici.
In conclusione “Voces Antiqui Sanguinis” raggiunge pienamente quello che è lo scopo intrinseco di uno split, offrendoci dei piccoli assaggi di quattro formazioni decisamente interessanti, variamente interessanti secondo il gusto personale, ma tutte in grado di imprimere personalità nella proposta. L’utilizzo del dialetto è solo l’elemento più evidente di una scelta artistica forte e non convenzionale ma, sotto certi aspetti, vista la fascinazione che ho subito rispetto alle soluzioni musicali delle tracce qui contenute (alcune più di altre evidentemente, ma nessuna mi ha lasciato indifferente), forse è l’aspetto meno “strutturante”. Rilevante sicuramente in termini di concept ma, al netto dei Kre^u in cui l’uso della lingua sarda/barbaricino conferisce al pari della musica di un senso ancestrale, sul piano prettamente della resa musicale non sono riuscito a cogliere marcate differenze, in termini di metrica, rispetto all’utilizzo del cantato in italiano.
Samaang Ruinees
Tracklist:
- Strja – Instrià
- Strja – La Siora dei Troni e delle Site
- Ticinum – La Cacia ad Godan
- Ticinum – Pavia Brusa, la Stria
- Kre^u – Accabbadòra
- Kre^u – Ma^iardzas
- Vrim – Ij Lìngher Vendicator
- Vrim – L’òra ant el Kali-Yuga
- Anno: 2024
- Etichetta: Masked Dead Records/Sulphur music
- Genere: black metal
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