J.C. Cinel è un musicista professionista di origini piacentine che, dopo aver militato una ventina di anni fa nei Wicked Minds, ha vissuto una lunga ed intensa attività niente meno che a Nashville (Tennessee), suonando anche in mezza Europa. Tornato in Italia ha continuato la carriera solista e questo suo ultimo ”Where The River Ends” sembra essere la summa di tutte le precedenti esperienze. Ora, prima di continuare, mi sento di dover esprimere la costernazione che ho provato nell’associare un tale curriculum di alta professionalità ad una delle più terrificanti copertine della storia del Rock, che sembra uscita da un pomeriggio di lavoro di un adolescente degli anni novanta strafatto di redbull e della sua nuova versione craccata di Photoshop.

A parte questa sbavatura, devo riconoscere che la musica, un collaudato Hard Rock americaneggiante con sottili venature folk e prog, è di alto livello, dal punto di vista tecnico, sia come esecuzioni che come produzione: J.C. Cinel si è circondato di ottimi professionisti, sui quali spicca un batterista capace di imprimere una qualità internazionale agli arrangiamenti.

Le abbondanti chitarre e le ricche parti vocali del disco credo siano tutte opera dell’intestatario del progetto e dimostrano capacità, versatilità ed entusiasmo. Il timbro vocale di Cinel è abbastanza neutro, morbido e pulito, spalmato su un buona estensione e supportato da una buona padronanza tecnica. Insomma, tutto perfetto? Beh, pur non essendoci nulla di sbagliato, io in questo disco ho trovato veramente tanti luoghi comuni musicali, un indugiare su una tradizione consolidata di stilemi e progressioni che, per il mio gusto, difficilmente riescono ad essere innervate di elementi veramente interessanti o accattivanti. Ad esempio l’iniziale “City Lights” vi darà l’impressione di aver già assaporato quel tipo di riff ed atmosfere, magari in un disco degli Uriah Heep degli anni ottanta, senza che il ritornello riesca ad emozionare veramente, lasciandoci con un mezzo sorriso di approvazione che avrebbe voluto piegarsi verso gradi di maggior soddisfazione. Il tutto confezionato in una elegante performance senza sbavature e ben infiocchettata di armonie, con una grande batteria e svariati assoli, ma priva di quella verve carismatica indispensabile per rendere i brani memorabili. 

Oblivion” sembra uscita dal songbook dei Deep Purple ed è una canzone decisamente riuscita, con un bel riffone a scandire le strofe, un ritornello dalle aperture inattese e un organo che guida il tutto. Un riff country blues rivestito di Hard Rock apre una frizzante “Feel Like Prisoners”, che include sfumature zeppeliniane in una decorata cornice robusta di legno americano.

Corroborati dagli arpeggi a effetto clavicembalo di “Mindmaze” ci inoltriamo nell’andamento terzinato di “Red-Handed”, che mantiene un sapore acustico  (e leggermente esotico) e atmosfere che richiamano grandi paesaggi all’aria aperta. Il finale è un gioiellino. Ecco, un elemento che ho apprezzato, nell’americanità di J.C. Cinel, è la preferenza per le ampie praterie rispetto alle frenetiche città, l’epicità della natura rispetto alla grettezza urbana.

Torniamo a melodie decisamente meno originali con la cavalcata hard blues “Asylum” che rimane gradevole nell’integrazione tra chitarre elettriche ed acustiche e, ancora una volta, grazie ad arrangiamenti di batteria di gran classe. “Burning Flame” è una lunga traversata assolata e polverosa in cui sentiamo la fatica del cavallo, godendoci la stanchezza di un ritorno al tramonto. Ritmi cadenzati ed avvolgenti nella morbida “How Far We Shine”, che mi evoca piacevoli echi di Scorpions anni settanta.

C’è poi un intervallo acustico con la piccola “Karakal (Lost In Shanghai-La)” prima della curiosa ballad “Strangers”, una composizione ricca di sorprese che si lascia ascoltare volentieri più volte, tra richiami Beatles/Beach Boys e accenni prog rock in un saliscendi dinamico di grande effetto.

Le strade battute su “Thank God I Way Alone” sono piuttosto note, con quelle strofe blueseggianti, l’andamento dondolante ma dritto e roccioso, un prevedibile solo di armonica e melodie molto generiche. Anche i riff di “Which Side Are You On” non brillano di originalità, ma il risultato è reso gradevole da arrangiamenti più vivaci ed alcune piccole sorprese a livello compositivo, verso un ritornello finale abbastanza coinvolgente.

La title track chiude il disco con un tema epicheggiante che sa di Ken Hensley, e che rivendica la superiorità della musica suonata nel costruire atmosfere di calore e vitalità. Con le sue variazioni dinamiche, dall’acustico confidenziale al pienone hard, “Where The River Ends” si candida a miglior brano dell’album, grazie anche alle belle armonie vocali e agli assolati assoli che scorrono sul finale.

Un disco capace di regalare soddisfazioni a chi vorrà dedicargli attenzione, e che nonostante la mancanza di hit o ganci particolarmente accattivanti, riesce a fare della propria elevata qualità media un punto di forza difficile da mettere in dubbio.

Un album datato? Un album “da boomer”? Forse sì, ma fatto bene.

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. City Lights
  2. Oblivion
  3. Feel Like Prisoners
  4. Mindmaze/Red-Handed
  5. Asylum
  6. Burning Flame
  7. How Far We Shine
  8. Karakal (Lost In Shangri-La)
  9. Strangers
  10. Thank God I Was Alone
  11. Which Side Are You On?
  12. Where The River Ends
  • Anno: 2024
  • Etichetta: Andromeda Relix / Black Widow
  • Genere: Hard Rock, blues prog rock americana

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