Il progetto Vltor prende corpo nel 2016 rilasciando come primo atto l’EP Odi nel 2019 e giungendo nel settembre del 2024 al primo lavoro sulla lunga distanza, il qui presente “Non Auro Sed Ferro”. Non oro ma ferro. Le coordinate stilistiche sono quelle di un black metal che cerca le proprie radici nelle virtù pagane della romanità, definite dalla stessa band come sanguinaria e profondamente morale. Epica che si trasfigura nei testi, rigorosamente in italiano, e si riflette nelle venature folk che vogliono riferirsi ad un’impronta italiana e mediterranea.
Il titolo dell’opera mi ha dato una prima chiave di lettura, molto probabilmente antitetica alle intenzioni della band: ci si riferisce all’età dell’oro della romanità ma, sul piano concettuale, si piantano le tende nell’età del ferro, occhieggiando quell’ansia di potenza post-futurista che ha in qualche modo re-inventato l’antica Roma e nel riferirsi ad essa anela alla “purezza eterna della grande patria” (“Tauribulus”). E allo stesso tempo si stende un ponte verso più “tradizionali” suggestioni del pagan black metal. Se il littorio inserito nel logo presenta una inusuale ascia bipenne, che trasfigura il tutto in un martello di Thor, è nel testo di “Haec Est Italia” che rintracciamo un riferimento al “padre che nel cielo tuona” in un testo di furiosa epicità per il riscatto (o, meglio, vendetta) di una terra che è “madre di Storia e Leggenda”. E tra storie e leggende non possono mancare congiure e lotte di potere tratteggiate in “Congiuratio” e riprese nella title track.
I riferimenti all’Antica Roma d’altro canto riprendono aspetti non banali, con i riferimenti a sacrifici rituali evocati in “Taurobolio” (il sacrificio di un toro nel culto di Cibele) o ai rituali dionisiaci condotti dalle baccanti di “Evoé Bacche!” (“nel tuo delirio trovo respiro/io sono libero”). Altra sfumatura prende “Ad Bestas”, in cui si riafferma l’integrità del culto pagano dando in pasto i cristiani ai leoni nell’arena “tra le grida del pubblico il culto si spegne/muori e sputa la tua fede sulla sabbia”.
Se il concept testuale indirizza verso una rilettura o, meglio, la definizione di un substrato epico e di un immaginario che si rifà alle radici romane (come chiarito ne “Il Toro e La Lupa”: “contemplando l’orizzonte comune della terra che chiamiamo patria”), il riferimento agli strumenti tradizionali e ad un contributo musicale radicato storicamente in quell’antichità di riferimento, è da un punto di vista strettamente filologico di ardua risoluzione. Se non altro perché non esistono notazioni scritte della musica dell’Antica Roma, mentre sicuramente sono arrivati a noi testimonianze scultoree/pittoriche degli strumenti utilizzati (nonché alcuni esemplari emersi dagli scavi di Pompei).
Eppure gli Vltor riescono a intrecciare profondamente il loro black metal, furioso ed epico insieme, con contributi folk che con il riffing delle chitarre si fondono perfettamente, non semplice ornamento ma elemento strutturante. Le intro affidate agli strumenti tradizionali non cedono il passo all’ingresso della strumentazione “tradizionalmente” black metal ma con questa si intessono come la trama con l’ordito.

Il “manifesto” folk degli Vltor è affidato a “Mundus Patet”, intro strumentale costruita su strumenti tradizionali, fiati e percussioni, intesi a tracciare le coordinate stilistiche della componente folk. Un drone di sottofondo delinea un senso di minaccia e sospensione, che verrà affidato nelle tracce successive ad un feroce assalto black metal. Le melodie affidate ai fiati intrecciano linee e sonorità in bilico tra centroamerica, trame mediorientali e ballate celtiche. Il riferimento al centroamerica è probabilmente attribuibile alle sonorità del flauto di pan, che pure è annoverato tra gli strumenti musicali dell’antica Roma, ma nelle nostre orecchie è associato ai gruppi folk peruviani. Più interessante è l’utilizzo del flauto (dal suggestivo nome romano di tibia) che, come vedremo più avanti, è strumento dominante nella tessitura folk degli Vltor.

Con “Taurobolio” siamo introdotti ad un midtempo dall’incedere marziale che cede il passo ad un blast beat furioso per attestarsi su un up tempo condotto da un lick di flauto, strumento che prende la guida e si pone come filo conduttore dei cambi ritmici e di riffing della sezione strumentale “elettrica” articolata da sezioni up tempo e solenni rallentamenti epicamente atmosferici.
Basterebbe il lavoro del comparto strumentale “tradizionalmente” black metal, unitamente alle efficaci linee vocali che giostrano tra scream laceranti (ma non striduli), yell corposi al limite del growl e cori in clean, a rendere questa un’ottima traccia. Ma la presenza del flauto/tibia è presenza costante, a tratti snervante, nella cifra stilistica intentata dagli Vltor.
“Coniuratio” si caratterizza per un “riff” veloce di flauto, che sembra la trasposizione di certo folk veloce suonato dai violini, capace di evocare un’atmosfera gioiosa e celebrativa e di intrecciarsi perfettamente con l’incipit in blast beat della traccia. Traccia ferocissima che alterna sapientemente sezioni in blast ad incalzanti mid tempo in cui cori anthemici giocano in contrappunto con lo scream. Con estrema naturalezza viene ripreso il tema di flauto in efficaci incastri rallentati.

Fedele al titolo, ”Deus Silvarum” evoca atmosfere agresti e selvatiche. Commentata dalla ritmica metallica dei sistri e dal frinire di cicale/grilli si leva un tema di flauti che ancora riesce ad essere uno straniante quanto efficace crossover tra sonorità centroamericane e temi celtici (mi ha ricordato la colonna sonora de “Il Gladiatore”), salvo poi prendere un andamento ritmico incalzante capace di evocare effettivamente, se non Roma, qualche sua provincia orientale. Ma è l’ingresso delle chitarre e della sezione ritmica a cristallizzare l’ispirazione degli Vltor. Dapprima in contrappunto con i fiati, e poi in unisono, le chitarre riescono efficacemente a far proprie le ricercate istanze folk creando un amalgama molto interessante. In questa traccia troviamo un andamento ritmico/melodico che sembra omaggiare certe canzoni tradizionali di tradizione contadina. Il riffing e variazioni della sezione ritmica confermano l’approccio non banale degli Vltor alla materia. Riescono infatti a risultare sempre travolgenti e sfaccettati costruendo metriche e interpretazioni vocali che arricchiscono ulteriormente la già ben stratificata sezione strumentale.

“Fons Perennis” evoca nell’incipit i Bathory maturi e in certa misura i Dissection che furono. Si innesta ben presto una trama di flauto/tibia che, al netto di brevi assenze, conduce l’intera traccia strumentale, come sempre giocata su diversi e ben articolati cambi di ritmo e di riffing, che qui a sostegno e in contrasto con la linea del flauto, assume toni più “nordici”.

“Evoé Bacche!” Si apre tra risate femminili, vibrare di scacciapensieri (il noto “marranzano” siciliano, ma strumento di origine asiatica), percussioni nordafricane e scuotere di sistro a definire l’atmosfera sfrenata dei baccanali, un incedere che viene raccolto con estrema precisione ed efficacia dalle chitarre e dalla sezione ritmica. Il riff iniziale vale l’intero lavoro. Torna l’onnipresente flauto/tibia, questa volta in maniera non pervasiva, ma sicuramente strutturale e valorizzante, soprattutto nel mantenere una linea tesa sotto cui si possono innestare validi stacchi e solenni ingressi in power chords.

“Haec Est Italia” Apre con un tema di flauti intrecciati che ha il gusto di certe composizioni tardomedievali imponendosi su un delicato arpeggio in clean che poi esplode elettrico con un riff che rimanda agli In Tormentata Quiete. La traccia si struttura quindi su un riuscito dittico di strofa in blast beat che ha il sapore del black melodico alla Necrophobic perfettamente condotto dalle vocals in scream, cui risponde un ritornello di power chords su cui si staglia uno yell autorevolmente declamatorio. I contributi del flauto/tibia sono distribuiti con sapienza ad assecondare il senso di urgenza delle strofe, alternandosi con il cantato, e il senso di epica sospensione del ritornello. Affidandosi ad una struttura tanto semplice quanto efficace, nella sezione centrale l’arpeggio in clean viene riletto in chiave elettrica velocizzandone la metrica a costruire un lick ricorsivo molto efficace. La traccia poi riprende in maniera simmetrica verso la conclusione.

In “Ad Bestias” si rilegge l’intro affidata a percussioni e flauti, già apprezzata in “Evoè Bacche”, con un gusto che sa di foresta pluviale fino all’ingresso della sezione elettrica che ha quel gusto orientaleggiante in bilico tra Melechesh e Behemoth. La composizione si regge sulle strutture vocali, che si fanno ampiamente narrative, articolate in tre sezioni, scream, yell e cori in clean declamati in latino, il cui mood è egregiamente sostenuto dalle diverse sezioni strumentali corrispondenti, coadiuvate nel muovere l’articolata varietà ritmica da diversi special che rileggono/riprendono le atmosfere dell’introduzione. I lick di flauto/tibia si intessono anche qui profondamente, ma con la giusta misura, nel riffing.

“Il toro e la lupa” è la traccia in cui, proprio per la semplicità della struttura, affidata sostanzialmente a tre riff e due linee melodiche, di cui una produce una virata armonica a dir poco geniale, si esprime ai massimi livelli la capacità degli Vltor di produrre arrangiamenti coinvolgenti e mutevoli grazie alle diverse linee vocali e ai cambi di passo imposti dalla sezione ritmica. Nonostante un tasso di aggressività e di fervore piuttosto elevati, questa è la traccia che più mi ha ricordato una “ballata folk” e mi ha portato a concepire l’approccio degli Vltor come una forma di “cantautorato” black metal in cui l’importanza dei testi e dell’epica che tratteggiano si fa decisamente strutturante. Epica di innegabile efficacia e resa, ma costruita su un solco tracciato con la spada. Ciascuno decida poi da che parte stare.

“Non Auro Sed Ferro” ci accoglie con un rapidissimo black metal melodico sorretto da un riffing di chitarra fatto di lick incalzanti, poi ripresi dall’immancabile flauto/tibia, che in questo frangente ha più un tono di “colore” che strutturante. Al di là degli efficaci e contenuti rallentamenti distribuiti a valorizzare la furia iniziale, il momento cardine è la sezione centrale che offre un rallentamento dal sostanziale tono narrativo. Non credo di aver capito fino in fondo il senso, ma ho avuto l’impressione di trovarmi al cospetto di una resa dei conti piuttosto sanguinaria. O al cospetto di una sorta di colpo di stato. Di sicuro ai vinti rimane l’onta (“vae victis”) ma, credo, non il tempo di assaporarla. La conclusione declamata in latino è decisamente suggestiva.

Nell’outro “Gemoniae”, un lamellofono (o idiofono a pizzico), unitamente a percussioni dall’andamento riflessivo, costituisce la base per un commiato affidato al flauto/tibia.

Dopo ripetuti ascolti e superate certe asperità, il flauto/tibia è a tratti davvero ostico nel suo perenne vibrare d’ancia, per assurdo è quasi una componente industrial nel suono degli Vltor, esco da questa esperienza di ascolto con una certezza.
Gli Vltor avrebbero potuto tranquillamente sfornare un validissimo album di black metal dall’alto tasso di aggressività ed epicità, grazie ad un comparto strumentale che mastica perfettamente la materia e, pur affidandosi a soluzioni di riffing consolidate, riesce ad infondere una personalità coerente nella costruzione delle linee melodiche. E grazie, soprattutto, alla determinante (e determinata) qualità delle linee vocali.
Eppure hanno preferito prendersi il rischio di osare contaminando la propria proposta con sonorità decisamente inusuali, perseguendo un approccio al folk che non si limitasse al confezionamento di intro evocative, ma facendolo diventare strutturale.

 

Samaang Ruinees

 

Tracklist:

  1. Mundus Patet
  2. Taurobolio
  3. Coniuratio
  4. Deus Silvarum
  5. Fons Perennis
  6. Evoé Bacche!
  7. Haec Est Italia
  8. Ad Bestias
  9. Il toro e la lupa
  10. Non Auro Sed Ferro
  11. Gemoniae
  • Anno: 2024
  • Etichetta: Dusktone Records
  • Genere: Pagan Black Metal

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Autore

  • classe 1970, dopo aver fatto studi musicali classici scopro a 15 anni il metal. a 17 anni il mio primo progetto (incubo - thrashgrind), poi evolutosi in thrash tecnico con gli insania (1989-1997) e infine in death-thrash con insania.11 (2008-attivo). prediligo negli ascolti death e black ma ho avuto trascorsi felici con la dark wave e l'industrial. appassionato di film e narrativa horror, ho all'attivo un romanzo pubblicato e la partecipazione con dei racconti ad un paio di antologie.

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