Gradito ritorno nel mio lettore questo dei Darkend, anche perché, nonostante io abbia gelosamente custodita su miei scaffali gran parte della loro discografia, era un bel pò che non prendevo parte ai loro rituali in musica: alfieri di un “blackened heavy metal” i Darkend inquadrano la propria proposta come “trascendenza sonora”, trascendenza che opera certamente a livello di esperienza d’ascolto ed esplode in ambito live, ma che è radice strutturale delle composizioni grazie alla tensione imposta alle più canoniche soluzioni black metal dal contributo del metal classico, nelle sue declinazioni più “maligne” e suggestive quali Mercyful Fate o Angel Witch, con particolare riguardo alle sezioni soliste e ad aperture atmosferiche ed eleganti.
Se “My Moltitude” apre, dopo un’incipit affidato a droni cosmico-industriali, come un up tempo dal riffing “vampirico” a la Cradle Of Filth, subito portato su un terreno più sinfonico dall’introduzione dei sinth a tessere armonie su un tappeto di doppia cassa e fioriture di tremolo picking, è la ripresa in up tempo sorretta da un lick di chitarra rarefatto a spostare l’ispirazione su un metal classico e sognante. Una melodia sospesa che viene progressivamente arricchita dal sovrapporsi di texture di sinth. Nel finale si trova la sintesi tra le istanze black e il gusto “classico”, quasi neanche più metal in senso stretto, dei contributi di chitarra solista. Salvo poi affidare la chiusura ad austeri quanto inquietanti colpi sul timpano che determinano la chiusura del rituale.
Con “An Incautious Exhumation Of What Lies Beneath Forgotten Ground” aumentano i bpm con un assalto frontale, in cui però il riffing di chitarra, articolato tra lick ricorsivi a note e tremolo picking, rammenta l’andamento di incalzanti sezioni d’archi. Le vocals giocano un contrappunto sui diversi registri, alternando uno scream acido ad uno yell più robusto, citando a tratti certi andamenti “teatrali” dei Cradle of Filth, ma trovando il proprio culmine dialettico con dei controcanti in clean vocals che muovono da un suggestioni di epicità guerriera per approdare, immalinconendosi, ad un sapore ritualistico e commemorativo. Tanto nelle parti sorrette dal rapidissimo S-beat che in quelle sostenute dalla doppia cassa, i Darkend intrigano attraverso la costruzione di sovrastrutture ritmiche dilatate ed austere.
“De Masticatione Mortuorum In Tumulis” apre come una solenne marcia doom grondante groove per trasfigurare subito in una suite in cui il tema principale viene continuamente rielaborato in un cangiante gioco di sospensioni, ispessimenti e stratificazioni in cui la chitarra, supportata dai decisivi arrangiamenti della sezione ritmica, cambia mood e registro giocando a rivestire, in senso lato, i diversi elementi di un’orchestra sinfonica. Come se lo stesso tema venisse sviluppato adattandosi al registro e alle possibilità espressive dei diversi strumenti. Soluzione compositiva decisamente interessante che offre alle vocals, che conducono un contrappunto tra scream e cori in clean, lo spazio per una narrazione spiccatamente teatrale, che ancora riesce ad evocare i migliori Cradle Of Filth, spostandone il gusto verso certe suggestioni degli ultimi Septic Flesh pur mantenendo un’impronta decisamente personale e assolutamente non derivativa. L’introduzione in chiusura di archi vibranti e note di pianoforte sembra mettere il sugello su questa intenzione orchestrale. Una composizione che, dopo ripetuti ascolti, riesce a definire quanto i Darkend siano arrivati ad uno stato di grazia compositivo che rende la loro musica tanto riconoscibile quanto sfuggente ad ogni classificazione. Sorretta com’è da una tecnica esecutiva e da un gusto degli arrangiamenti al pieno servizio della costruzione di un’esperienza emotiva che trascende la ragione nel puro godimento dell’ascolto.
“An Ancient Plague Has Silently Worn Our Garments As Its Throne” ci aggredisce con un dittico di riff in up tempo, che mi evocano Dimmu Borgir e Naglfar, che risolvono, senza cedimenti da parte della sezione ritmica, in un’apertura sorretta da un arpeggio dal sentore hard rock (se non addirittura con un flavour sudista). È solo il primo degli “accidenti” di arrangiamento che spezzano la furia del riffing iniziale che torna solo per dare agio alla successiva sezione articolata da una sintesi estrattiva dei temi melodici proposti. Temi che vengono prima declinati da una sezione in tremolo picking dal sapore epico e folkeggiante sostenuti da un tappeto di doppia cassa. La struttura melodica viene poi affidata ad un giro di power chords su cui si staglia un solo che si richiama al metal classico. Dopo un’ulteriore apertura che mi ha richiamato alla memoria i Metal Church, il tema folkeggiante viene sviluppato da un gioco in parallelo di fraseggi chitarristici rallentati e sognanti su cui si staglia un recitato in clean. La sezione di chiusura torna su velocità up tempo riprendendo simmetricamente la parte iniziale.
Una formula non nuova nel black metal, tanto quello tradizionale e raw (apertura brutale, rallentamento centrale e guizzo brutale di ritorno nel finale), quanto in quello contemporaneo e più “maturo” che declina questa formula con arrangiamenti più complessi. Sicuramente coerente con l’impronta dei Darkend, quanto meno quella che sembra emergere in questa release, è il giocare con la reinterpretazione in chiave più “classica”, nel senso di metal classico, dei temi. In modo più evidente nell’impianto dei contributi delle soliste e in misura più sottile nel trattamento degli arrangiamenti che sembrano voler “strappare” la vena black metal, di cui pure sono intimamente intrisi, dai canoni e dalle “maniere” di genere.
Per uno strano scherzo del lettore mp3, “In Your Multitude” mi è stata sempre proposta come opener, catturandomi subito con il suo incipit che rimanda molto alla ricerca musicale dei Dead Can Dance: un canto che sembra librarsi dalle sabbie di un deserto al tramonto, il canto di uno sciamano che invoca i djinn. La loro furia, o la loro pietà. Non importa.
La particolarità di questo canto è da attribuirsi anche alle mirabili scelte di produzione dato che sembra emesso contemporaneamente da una voce umana, da un oboe e dalle corde più gravi di un violoncello. Un canto che rimane in sottotraccia, si evolve e si trasfigura, assegnato di volta in volta a diversi strumenti orchestrali, mentre la musica esplode in una marcia pagana che ha del trionfale e del funebre insieme. L’incedere è quello dei Samael di “Ceremony of The Opposites” ma è intriso di mediterraneo orientale, di quel paganesimo assolutamente non nordico espresso dai Septic Flesh e dai Melechesh, dal richiamarsi a civiltà estranee all’occidente. Nonostante ci siano nella tessitura melodica delle vaghe influenze celtiche, la sensazione è quella di assistere ad un rituale appartenente al culto del serpente dell’era Hyboriana creata da Howard. La struttura è quella di un’elegiaca suite in mid tempo improntata ad un lento quanto inesorabile crescendo. Cerniera dei vari movimenti è un arpeggio ipnotico sorretto da un sapiente lavoro di basso punteggiato da un egregio lavoro di cassa, rarefatto e dall’incedere faticoso ma capace di liberarsi in un solido tappeto di doppia terzinato a sorreggere le sezioni in cui il tema principale si sviluppa dal tremolo picking iniziale a sezioni orchestrali che aprono su orizzonti immensi. Vi troverete senz’altro a ascoltarla in repeat per un numero sfiancante di volte perché composizioni di questo livello trascendono generi e sottogeneri.
Il lavoro delle vocals, introdotto da uno scream acutissimo, lancinante e sofferente che fa riflettere su quanto e come i Darkend riescano a trasfigurare le proprie ispirazioni: sì, è il classico acuto di Dani Filth, ma qui portato ad un livello di sofferenza ed espressività radicalmente superiore. Un senso di disperazione che permea le vocals lungo tutti i 15 minuti di questa suite. E se insisto su questa qualità della voce è perché svela la dualità che sottende la natura della proposta dei Darkend: da un punto di vista strumentale, attraverso il richiamo al metal più classico, si spoglia degli aspetti più “oscuri” e “morbosi” del black metal, conseguendo un carattere “apollineo” e sublime mentre, attraverso il contributo delle vocals ne conferma l’aspetto dionisiaco, elevandone il registro da pura maniera a riflessione sulla straziante lacerazione dell’essere umano, diviso tra pulsione e ragione.
O, meglio, tra Eros e Thanatos. Là dove questi si intendano come tensione alla creazione e tensione alla distruzione. Di sé.
Samaang Ruinees
Tracklist:
- In My Multitude
- An Incautious Exhumation Of What Lies Beneath Forgotten Ground
- De Masticatione Mortuorum In Tumulis
- An Ancient Plague Has Silently Worn Our Garments As Its Throne
- In Your Multitude
- Anno: 2024
- Etichetta: Time To Kill Records
- Genere: Sonic Transcendence / Blackened Heavy Metal