Recensire questo disco mi ha messo in difficoltà. E già mi sembra un’ottima cosa. Ho ascoltato il debutto dei Butt Splitters (cioè… gli “Spacca Culo”?!?!) per più di due settimane, in un altalenante susseguirsi di impressioni che hanno spaziato da un’iniziale forte scetticismo (prossimo alla derisione o alla condiscendenza paternalistica verso chi, comunque, ci ha provato) fino ad una rivalutazione non priva di entusiasmi nei confronti di alcuni oggettivi meriti della band.

Proverò ad argomentare queste mie oscillazioni nel modo più semplice possibile, condividendo con voi le sensazioni e le oggettività riscontrate nel conoscere la band. I Butt Splitters sono cinque ragazzi non più giovanissimi con un passato da cover band che, come tanti in tempi di lockdown, hanno cominciato a buttar giù un po’ di canzoni, sviluppando un concept album in uno stile da loro stessi definito “industrial metal”. Il fatto che di “industrial” non ci sia la minima traccia è uno degli elementi di perplessità che mi hanno turbato, facendomi interrogare sul reale grado di consapevolezza di questi musicisti nei confronti di ciò che fanno. Aggiungiamo uno sgangherato e striminzito testo di presentazione/biografia al limite dell’irricevibile, in cui riescono persino a sbagliare il nome del protagonista del loro stesso concept e capirete il perché mi sia avvicinato con titubanza all’eclettismo sonoro della band. Già, perché in “Nibelvirch” ogni canzone ha uno stile diverso (ma mai industrial, tranquilli) e ammetto di averci messo un po’ prima di cogliere questa caratteristica come un pregio, confermato da una capacità di composizione di grande efficacia e, in fin dei conti, anche una vaga identità stilistica comune. La sensazione che ho avuto è che i cinque musicisti (tutti piuttosto competenti) abbiano fatto tesoro delle numerose serate passate a intrattenere spettatori casuali con validi brani altrui, assimilandone stilemi compositivi ed espedienti espressivi che hanno poi riutilizzato, rimaneggiandoli un po’, per le proprie canzoni. Se queste infatti risultano spesso un poco derivative, devo riconoscere che riescono a portare con sé anche buona parte di quella magia che rende i pezzi “vincenti”, ovvero capaci di farsi identificare, riconoscere e ricordare. E i Butt Splitters sanno scrivere delle canzoni che, da questo punto di vista, funzionano.

Buona parte del merito va certamente alle studiate melodie vocali di facile presa ed alle interpretazioni versatili e sentite del bravo cantante Stefano Firmani, il quale, paradossalmente, è anche l’elemento che maggiormente mi mette in difficoltà nel promuovere la band. Dotato di un bel timbro e di un range vocale medio alto, capace di enfasi, delicatezza e potenza, mi è risultato comunque l’elemento meno convincente, forse a causa di un mixaggio che lo lascia troppo “nudo” o, più probabilmente, per la scelta delle parole ed il modo di cantarle: guidato, ma anche vincolato, da una storia predefinita a cui attenersi, mi sembra di avvertire nella sua performance spesso una scollatura tra parole, musica e intenzione.

Ora, io non sono un esperto di lingua inglese, ma la netta sensazione che ho avuto nell’ascoltare le canzoni dei Butt Splitters è una certa forzatura nei testi, dovuta sia ad una certa didascalicità narrativa, sia all’utilizzo di sintassi italiana, con risultati troppo spesso stridenti o grotteschi (complice anche una pronuncia dell’inglese non sempre fluente), che rischiano di squalificare pesantemente l’ottimo lavoro di Stefano.

Ma lasciamo le mie malinconie da parte e parliamo della musica. Anzi no, prima vi racconto la storia di Paul Amadeus Dienach, i cui presunti diari sono il testo di riferimento per la stesura di questi brani. Come ribadisce l’introduzione dell’album, narrata in tedesco, Dienach nasce a Zurigo nel 1884, divenendo successivamente insegnate. Nei primi anni venti del novecento rimane vittima di quella misteriosa ondata di “Encephalitis Lethargica” che colpirà tanti europei in concomitanza con l’epidemia di “spagnola”, con ripetuti improvvisi attacchi di sonno comatoso di lunga durata. Dopo un debilitante “sonno” di oltre un anno, si sposterà in Grecia per trovare sollievo anche alla tubercolosi, continuando ad insegnare per il poco tempo rimastogli da vivere. Sarà proprio uno dei suoi allievi ellenici che, a distanza di cinquant’anni, pubblicherà quelli che dichiara essere i diari del defunto professore, da lui tradotti per fare esercizio. In quelle pagine scopriamo che il nostro professor Dienach, durante il coma, ha preso coscienza all’interno di un altro corpo, proiettato in una realtà lontana più di duemila anni nel futuro! In questa prima canzone, caratterizzata da un incedere massiccio ed epico, che mi ha ricordato i Tad Morose, sentiamo Stefano cantare il drammatico quadro clinico del protagonista che, tra le altre sfighe, ha pure visto morire la morosa qualche anno prima. Il ritornello terzinato è ampio, teatrale e coinvolgente, la melodia si stampa in testa, gli arrangiamenti ben calibrati, l’assolo pertinente e sentito e la canzone riesce alla grande. Poi vabbè, a me fa ridere quando canta “…and even years”, ma forse è solo un mio problema.

Il secondo brano è una ballata di finto pianoforte, molto più tradizionale di quanto la fuorviante dicitura “industrial” potesse far temere, sviluppandosi su temi di grande pathos, con un’interpretazione emotivamente partecipata e un ritornellone pompato dove le linee vocali non sono mai banali. Si parla chiaramente della tizia morta (suicida, temo). Colpisce il gusto un po’ vintage, quasi da boomer, che potrebbe collocare il disco anche uno o due decenni indietro. (non è una critica negativa)

In linea con quell’approccio da metal tradizionale europeo, melodico ma massiccio (ve li ricordate i Morgana Lefay?) abbiamo la bella “Mystery Of Time”, tra martellate e sezioni più raccolte, con un bel gancio nel ritornello ed un finale a sorpresa tiratissimo in blast beat in cui il protagonista si risveglia nientemeno che nel 3905.

Cavalcata metallica per le scattanti strofe di  Insomnia”, alternate al meditativo ritornello, cui si appiccica un assolo da rocker ben suonato ma stilisticamente un po’ gratuito. La composizione, nella sua dinamica, resta credibile e godibile.

The Death Bells Rang Far Away” è un pezzo strano, dal testo piuttosto stucchevole, moralista e generalista (l’uomo cattivo rovina il mondo) che mal si spalma sulla spigolosa struttura del brano, che trova momenti felici nel rifaccio “troll Metal” centrale, che verrà ripreso anche in versione vocale in una sorta di sgangherato jodel che spiazza piacevolmente per il suo eclettismo, ma lascia ugualmente perplessi…

We Are Alive”, col suo cantato sincopato, rievoca spettri numetal che speravamo sepolti alcuni lustri fa, e ci narra la colonizzazione di Marte da parte dell’umanità del futuro (quindi un “planet B” c’è!) in un brano ritmato che suona allo stesso tempo modernista e datato, con alcuni momenti convincenti e altri imbarazzanti. Apprezzo comunque la ricerca di un’originalità stilistica ed una libertà espressiva veramente rare e fuori dal comune.

Abbandonato il metal melodico di inizio disco, con “Global War” abbiamo un brano ad alta cafonaggine, tra Coal Chamber, riff gommosi, incisi spiazzanti, per un mix letale e indigesto che finisce per piacermi più di quanto non sia disposto ad ammettere…

È sorprendente come tutto questo eclettismo venga tenuto insieme all’interno di composizioni ad alta digeribilità, resa possibile dall’indiscutibile esperienza della band. Sempre lodevoli gli arrangiamenti sobri e complementari delle due chitarre.

Si torna indietro nel tempo (musicalmente) con un brano class rock che potrebbero aver scritto gli Europe con la moralisticheggiante “Never And Never Again” e il suo irresistibile ritornello. “Homeland” inizialmente mi faceva cagare, con quel riffaccio generalista rubato ai Black Label Society più svogliati e quello spudorato tentativo di plagio dei TOOL, ma devo ammettere che il pezzo funziona meglio della somma delle parti. Abbiamo anche la sezione dilatata e rarefatta, psichedelica e utopistica del “volemose bbene”, l’urlo alla Maynard e ancora il ritornello, semplice e valido.

Sono confuso dall’efficace fusione tra il riffing “american power Metal” e groove che i nostri riescono a mettere in pratica anche nella buonista “Beauty To The World”, che però nonostante il buon lavoro di artigianato musicale stenta a decollare e volare all’altezza del resto dell’album.

Basso e batteria vanno a braccetto sgambettando su “Dear Diary”, dove lo stile personale e riconoscibile del cantante inizia a farsi un pochino ripetitivo e fallisce nel tentativo di regalarci l’ennesimo ritornellone.

Il disco e la storia di Dienach si concludono con la lunga “Magnet Of My Destiny”, in cui il nostro onironauta rischia di fare la figura dello stalker nei confronti di una ragazza del futuro che lui è convinto essere la reincarnazione della propria mancata compagna di gioventù… Musicalmente abbiamo ancora soluzioni spiazzanti, questa volta all’interno di un contesto epico e melodico di una power ballad dalle tante sfaccettature.

Io questi Butt Splitters alla fine li ho trovati più interessanti del previsto, spiazzanti ma per nulla ostici, curiosi e generosi con l’ascoltatore: non mi servono duemila anni di sonno per dire loro, nonostante tutto, bravi!

 

Marcello M

 

 

Tracklist:

  1. Encephalitis Lethargica
  2. Flowers Of The Wind
  3. Mystery Of Time
  4. Insomnia
  5. The Death Bells Rang Far Away
  6. We Are Alive
  7. Global War
  8. Never And Never Again
  9. Homeland
  10. Beauty To The World
  11. Dear Diary
  12. Magnet Of My Destiny

 

  • Anno: 2024
  • Etichetta: Autoprodotto
  • Genere: Melodic metal

 

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