Formatisi ad inizio 2023 gli Astral Fortress si mostrano come un progetto che nasce con direttive ben definite che porta ad un debut in tempi stringenti, a poco più di un anno dalla formazione, sicuramente anche grazie all’esperienza maturata dai due fondatori, Talamandas (Holy Martyr) e Enharioth (Shardana/The Blacktones). Dalle note del presskit dimostrano di avere le idee ben chiare, sia a livello di direzione musicale da intraprendere che di concept su cui improntare le proprie suggestioni. In bilico tra death metal melodico e black metal, nelle intenzioni con radici fortemente salde nella scena anni 90, con una spruzzata di avanguardia e riferimenti che spaziano dai Dissection ai Darkthrone per raggiungere attraverso i Morbid Angel i Naglfar di “Vittra”, album da cui traggono ispirazione per il monicker. Concettualmente i temi trattati spaziano dall’orrore cosmico di H.P. Lovecraft a quello cinematografico.
A fronte di un manifesto programmatico così definito, al recensore di turno non rimane che dimenticare tutto e affidarsi alle proprie orecchie e alle proprie emozioni. Dimenticare e superare innanzitutto, una volta schiacciato il play sul lettore, la suggestione datagli dal monicker, che da un alto mi ha evocato i Dark Fortress, dall’altro i Limbionic Art.
Dopo una breve introduzione affidata ad una pulsazione da “rumore bianco” (“Quantum Fluctuation”) mi trovo al cospetto del sontuoso riff di apertura di “Unanimated Matter” sorretto da una chitarra epica e vagamente folkeggiante che sfocia in una cavalcata up tempo che ha un sapore di NWOBHM, in bilico tra riff maideniani e atmosfere a la “Crusader” dei Saxon. Sarà dovuto forse alla produzione cristallina e ariosa, ma qui fatico a rintracciare sia il death (per quanto melodico) che il black metal. Se non forse per qualche riferimento “concettuale” al riffing dei Dissection, e qui mi riferisco in particolare a “Reinkaos”, il cui ascolto a suo tempo mi aveva decisamente spiazzato per l’attitudine strumentale ai limiti dell’hard rock.
Niente di male in sé, salvo forse il volersi riferire a dei sottogeneri del metal, che hanno le proprie peculiarità sia in termini stilistici che di attitudine, quando in effetti la propria ispirazione e direzione artistica va in un verso del tutto differente.
È del resto caratteristica di un certo metal moderno quella di utilizzare pattern chitarristici o ritmici propri del metal estremo per confezionare composizioni la cui anima è intrisa di un “sentimento” del tutto avulso all’estremo.
L’impressione che questo sia il caso degli Astral Fortress mi viene confermata dalla seguente ”Spawn Of The Stars” che nonostante si avvalga in apertura di ritmi più sostenuti e di un riffing in alternate picking più serrato, per poi sprofondare in un low tempo rarefatto andando a replicare quindi uno schema più che consolidato in certo black primordale, sembra attestarsi su binari speed-thrash che si innestano su un doom a la Candlemass, più epico/trionfale, che maligno.
Con “The Dreams in the Witch House”, racchiusa in una parentesi arpeggiata di ottima fattura, il riffing di chitarra si avvicina allo stile degli Old Man’s Child sebbene l’andamento della composizione, soprattutto per l’apporto delle vocals, si orienta su una sorta di ballata folk dalle marcate tinte anthemiche.
Nonostante il serratissimo up tempo di “The Dunwich Horror”, sorretto da una coppia di riff tipici di un certo fast black minimalista, rimane la sensazione di una rivisitazione di certo speed metal anthemico in stile Tankard. Anche qui scelte di produzione e approccio delle vocals sono determinanti nel trasfigurare un impianto raw black in qualcosa d’altro.
E, a questo punto, mi vien da pensare che la cifra stilistica degli Astral Fortress sia proprio questa.
“The Lighthouse” gode di un’intro arpeggiata finalmente inquietante che riesce a contagiare il riff successivo sorretto da uno skank beat velocissimo. Accordi diminuiti in strumming disegnano una tensione sospesa, fino all’apertura anthemica centrale sostenuta dalla doppia cassa. Ne consegue un low tempo rallentato e un’ulteriore rarefazione di gelido ambient decisamente gradevole in cui le onde dell’oceano costituiscono il perfetto drone di appoggio a un arpeggio dilatatissimo. La chiusura in tremolo picking e doppia cassa crea una tesa sospensione che evolve in un incalzante giro di accordi diminuiti accompagnati da un evocativo lavoro sui tom ed un bel recitato virile che riesce ad evocare l’intensità di Nick Cave. Val la pena soffermarsi sul carattere delle vocals che si attestano su uno yell in clean che, quando non è affiancato da un raddoppio di voce sul medesimo registro, trova il proprio spazio evocativo grazie ad un efficace uso stilistico del riverbero. Non mi viene difficile immaginare la stessa composizione commentata da uno scream lancinante e straziante sorretto da chitarre slabbrate e ronzanti.
E comincia a farsi chiaro nella mia mente quale sia il vero “progetto artistico” degli Astral Fortress che sembrano voler “asciugare” e “chiarificare” certi standard black metal. È un po’ l’effetto generato dallo strumming black eseguito su chitarra acustica dai Primordial, per capirci.
Come per la canzone precedente, gli amanti dell’horror cinematografico d’autore coglieranno il riferimento concettuale di “Rosemary’s Baby”, composizione introdotta da una sorta di “minuetto nuziale” ben lavorato dalle chitarre e dal basso, capace di evocare tanto le atmosfere degli Opera IX che i Mortuary Drape. Si scatena a seguire un up tempo sostenuto da taglienti riff di chitarra e introdotto da un furioso urlo iniziale che copre le prime quattro battute. Le vocals si attestano su un registro in clean ritualistico, con un buon contrappunto di seconda voce leggermente più grave. L’effetto è (quasi) quello dei Carmina Burana in chiave black metal. Torna il canone partenza furiosa/rallentamento parossistico centrale/chiusura furiosa. Ma qui la sezione centrale offre un piacevolissimo crescendo che muove da una litania sacrale per evolvere verso registri a la Pink Floyd e maturare in un mid tempo di chitarre laceranti con echi arpeggiati e uno scream, finalmente ruvido e straziato. A mio gusto il momento migliore dell’intero lavoro ma è, appunto, una questione di gusti. E comunque, quando il Diavolo ci mette lo zampino…
In “Cosmic Void” la chitarra profondamente effettata entra in dialogo con i sinth, sia intesi come droni, che come costruzione di un tema melodico affidato ad un metallofono. Si torna in territori floydiani, per le armonizzazioni delle voci, che prog settantiano (si notino i temi affidati ad un sinth che emula la voce del korg). La sezione iniziale è ampio prologo alla sfuriata in up tempo, con la batteria che sfodera un serratissimo s-beat mentre le chitarre procedono in strumming alla costruzione di una progressione binaria. Le vocals eseguono un contrappunto di yell pulito sui registri alto e medio-grave che ormai è il marchio di fabbrica degli Astral Fortress. Una digressione rarefatta dal sapore pienamente prog settantiano è solo un momento di riflessione prima dell’inasprimento finale che, tuttavia, mantiene un doppio registro tra la velocità della sezione strumentale e la cadenza metrica epica e ariosa delle vocals. Una composizione che gioca di contrappunto tra il minimalismo furente delle sezioni up tempo e le sezioni di apertura e intermedie, che decisamente si aprono a interessanti e ben finalizzate sperimentazioni, fino alla chiusura che, per quanto alla parte strumentale, offre cadenze quasi da musica classica.
“Gaia, the Doomed Planet” è una breve suite pianistica che conclude con ampia intensità emotiva questo strano viaggio nel mondo, anzi nell’universo, degli Astral Fortess.
A fronte di uno smarrimento iniziale, mi sento di dire che gli Astral Fortress sono una formazione che ha scelto un percorso di reinterpretazione del black metal con una sua validità artistica e una spiccata personalità che nel corso degli ascolti è riuscita a convincermi, in particolare nella seconda metà del lavoro, là dove è più evidente il processo di “decostruzione” del genere e là dove è più esasperato il contrappunto tra le sezioni più avant-garde (o semplicemente prog) e quelle di black minimalista. Una nota di merito va senz’altro alle vocals, che tracciano percorsi differenti sia a livello di scelta timbrica e tecnica che di “sentimento”.
Certamente può lasciare sconcertati la frattura tra il “manifesto artistico” dichiarato e la proposta che ne è derivata e, probabilmente, questo sarà il setaccio tra chi avrà la pazienza di comprendere lo spirito artistico di questa formazione e chi, non trovando confermata una formula più comoda, passerà oltre.
Samaang Ruinees
Tracklist:
- Quantum Fluctuation
- Uninimated Matter
- Spawn Of The Stars
- The Dreams in The Witch House
- The Dunwich Horror
- The Lighthouse
- Rosemary’s Baby
- Cosmic Void
- Gaia, the Doomed Planet
- Anno: 2024
- Etichetta: Elevate Records
- Genere: (post) melodic death/black
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