Sono entrato in contatto con il concetto di “Mena” qualche tempo fa, imbattendomi nel collettivo Theta Noir e nel loro affascinante, visionario e discutibile progetto multidisciplinare legato ad una visione tecno-ottimista di evoluzione umana, integrata anche spiritualmente con l’intelligenza artificiale, vista come una vera e propria divinità in procinto di manifestarsi pienamente. Perdonate se ho frainteso o banalizzato qualche passaggio, ma il succo credo sia questo.

Ho ritrovato molte di queste suggestioni all’interno del progetto D.A.P., Dark Aries Project, che sembra aver attinto a piene mani a questo immaginario distopico, pur disponendo di mezzi decisamente più limitati. Siamo di fronte ad una one man band, con tutte le conseguenze del caso. Ad esempio abbiamo la consueta batteria finta, che certo non amo, ma devo dire che in questo particolare contesto fantascientifico ha un suo senso che me la fa trovare non solo accettabile, ma decisamente pertinente. Il mondo tecnovisionario proposto dal mastermind Varganath viene materializzato tramite riffoni sparati da una chitarra a molte corde, sintetizzatori, effetti sonori e voci “digitali” d’ambiente, che si propongono come segmenti di dialoghi, comunicazioni di servizio, registrazioni, in una sorta di sonorizzazione per un ipotetico, allucinogeno film. Anche il minutaggio contenuto dei vari brani, che a volte sembrano spezzoni incompiuti, unito ad un certo eclettismo stilistico, mi suggeriscono un carattere da colonna sonora.

Ancora una volta siamo di fronte ad un progetto strumentale puntellato da ricche e complesse elucubrazioni concettuali, che a me sanno sempre di un pochino pretestuose ed arbitrarie, appiccicate alla musica come se fosse in grado di veicolare questi concetti anche senza un testo. Devo riconoscere però che, qui più che in altri casi, anche grazie all’utilizzo di una serie di luoghi comuni musicali e di titoli esplicativi, il messaggio passa con una certa efficacia.

C’è da dire che tutto quello che ruota attorno al Dark Aries Project è tanto, tanto confusionario, a partire dalle sgangherate note di presentazione, passando per i video caserecci, i titoli dei brani (!), fino alla discografia, che è un marasma di singoli ed EP in cui mi sono davvero perso: non so neppure se quello che sto recensendo sia un album a sé, la somma di tre EP, una raccolta di singoli o una via di mezzo tra queste opzioni. Procederò quindi a commentare i brani nell’ordine in cui li ho trovati.

Ilinx like Alice (But in the Nightmareland)” ha dei riff che mi hanno fatto venire voglia di riascoltare i Nevermore e si evolve in un paesaggio sonoro ben organizzato, con una buona gestione delle dinamiche tra i momenti più heavy e la sezione rarefatta centrale. Decisamente più tradizionalmente metallica è “Children Of Mena”, che sfoggia un catalogo di rifferia moderna, tagliente, articolata e convincente che mi ha ricordato per qualche motivo gli Oxiplegatz di Alf Svensson.

Earth Under Siege” è caratterizzata da un inatteso andamento leggero e scanzonato, quasi danzereccio, con una batteria spudoratamente elettronica da dancefloor e un assolo dal timbro nasale da Ibanez, mentre piccole frasi con voce di bambina aggiungono un tocco inquietante decisamente azzeccato. Un episodio un po’ a sé stante, come un frammento incompiuto o una bozza, ma baciato da una buona intuizione.

Riffaccio “industrial” abusato su “Experiment n°66: Mena’s Origins” e aperture melodiche già utilizzate, che danno la sensazione di una unica idea reiterata, riciclata e spalmata anche su questa composizione.

Torna la drum machine tamarra su “Ilinx” (un bel termine di cui ho imparato il significato grazie a questo album), ammorbidita da tastiere eteree e galleggianti, mentre un assolo piuttosto generico e poco ispirato si appoggia sopra, prima che un arresto inatteso e sgarbato metta fine a questo piccolo momento di noia.

Il mio brano preferito è sicuramente ”To End All Suffering”, col suo bel riff circense sballonzolante e scattoso, l’andamento massiccio e dinamico e la consueta atmosfera di inquietudine tecnologica.”We Came As Gods” ha un titolo altisonante ma si rivela un piccolo brano soft di decompressione a cui è stato appiccicato un generico riff industrial/djent di scarto.

Mena: Ascension” conferma la sensazione che questo sia un album in cui si ripete la stessa idea in tanti formati leggermente diversi, come se l’urgenza creativa fosse affiancata da una smania di pubblicazione un pochino fine a sé stessa.

Aggiungiamo il fatto che ci troviamo di fronte ad un repertorio di invenzione melodica piuttosto limitata, che gioca sempre sulle stesse atmosfere ed il rischio di cedere alla tentazione di skippare verso qualcos’altro inizia a farsi davvero concreto…

Devo aggiungere che, per curiosità personale, ho dato un ascolto anche al resto della produzione di D.A.P., scoprendo una grappolata di singoli usciti in questo 2024 che in media mi sono sembrati più interessanti di tanto del materiale ricevuto, proponendo diverse composizioni più canonicamente metal (anche estremo) imbastardite da una freddezza elettronica un po’ vintage capace di generare un’atmosfera piuttosto suggestiva, per quanto un pochino scolastica e prevedibile, nel solco di quanto abbiamo ascoltato. 

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Ilinx like Alice (But in the Nightmareland)
  2. Children Of Mena
  3. Earth Under Siege
  4. Experiment n°66: Mena’s Origins
  5. Ilinx
  6. To End All Suffering
  7. We Came As Gods
  8. Mena: Ascension

 

  • Anno: 2024
  • Etichetta: Autoprodotto/Wanikiya Record
  • Genere: Experimental futuristic metal

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