Non conoscevo la storia dei CRΩHM, i pionieri dell’Heavy Metal valdostani che per primi, nel 1985, fecero risuonare il Verbo tra quelle montagne, riuscendo a registrare giusto un paio di brani prima di scivolare in un lungo letargo di quasi trent’anni. Poi l’inatteso risveglio e, grazie ad un batterista di qualche lustro più giovane rispetto ai tre veterani, quattro album (e un live) negli ultimi dieci anni! Una bella storia, che però rischia di essere più interessante della band stessa. Concentriamoci quindi su questo ultimo “The King Of Nothing”, registrato fieramente con un’attitudine live e senza metronomo, come è giusto e bello che sia. Desidero cominciare dagli elementi che mi hanno colpito positivamente, dato che, lo anticipo già, l’album è minato da difetti piuttosto pesanti…
Adoro il fatto che questo sia un disco nato dalla semplice passione, senza ambizioni di professionismo, senza un’etichetta, senza obblighi, ma solo per il gusto di farlo e di farlo, ancora una volta, insieme. Si percepisce affiatamento. Mi piace il suono di chitarra di Claudio Zanchetta, diretto, ruvido e ruspante e ancor di più quello del basso di Riccardo Taraglio, croccante, schioccante e pieno, sempre udibile e presente. Meno credibile, soprattutto in un contesto così “genuino”, il timbro sintetico di cassa e rullante. Mi sono ritrovato con piacere nell’approccio crudo, essenziale, dritto al punto sia della scrittura ma soprattutto delle esecuzioni, veraci e virili, che mi hanno ricordato quell’Heavy Power anni ottanta portato avanti da un sottobosco di band con pochi mezzi e tanta fotta. Infatti è soprattutto negli episodi più tirati e intensi che i CRΩHM ottengono i risultati migliori, mentre mi sento di invitarli a rivedere la gestione delle ballad…
Pur essendo un forte sostenitore della schiettezza, vitalità, dell’onestà, dell’irruenza spontanea e incontenibile che secondo me dovrebbe caratterizzare i dischi Heavy Metal, trovo l’approccio della band fin troppo approssimativo in fase di registrazione: spesso le esecuzioni, soprattutto di chitarra, sembrano degli abbozzi, registrazioni demo da rivedere e sostituire in seguito, una volta stabilito l’arrangiamento definitivo. Ok l’autenticità, ma qui si è proprio tirato via!
E veniamo ora al vero, grosso problema di questo disco, ovvero la voce del buon Sergio Fiorani. Dotato di una vocalità media, vagamente simile ad un Blaze ancor più loffio, ci conquista umanamente con la sincera dedizione al proprio ruolo e il tentativo di infondere trasporto e partecipazione, ma, da ascoltatori, ci fa accapponare la minchia. Qui abbiamo un serio problema di intonazione, prima ancora di affrontare limiti di scrittura, gusto melodico o interpretazione. Non ritengo che l’intonazione perfetta sia un requisito imprescindibile per essere un grande cantante, ma qui siamo sull’orlo dell’irricevibile, al punto da squalificare l’intero disco. Scrivo questo con dispiacere, ma anche con la speranza che un punto di vista franco e disinteressato possa essere di aiuto. Intendiamoci, nelle parti più lineari e ritmate Sergio è più che dignitoso, ma ogni volta che tenta un vocalizzo è come lanciarsi in un viaggio nell’ignoto, senza meta né destinazione e pure senza pilota. Ogni modulazione o nota allungata è dolorosamente fuori fuoco e l’intonazione ondivaga conferisce un’ che di grottesco a brani che avrebbero ben altre potenzialità. Ho provato ad ascoltare il vecchio materiale, giusto per capire se questa tara accompagnasse il gruppo da sempre e, con stupore (ma anche con sollievo) ho notato molto ma molto meno questo difetto negli album precedenti: addirittura, nel live del 2021 (“Paindemic”) abbiamo alcune delle sue migliori performance! Quindi non so se l’attuale problema dipenda da una recente difficoltà percettiva, da qualche disavventura sanitaria (e, nel caso, ha tutta la nostra solidarietà) o se sia solo trascuratezza in fase di registrazione, con la colpevole complicità di tutti quelli che hanno partecipato alla realizzazione di questo disco.
Forte di una copertina impattante ma dal gusto piuttosto discutibile, l’album ci dà il benvenuto senza troppi convenevoli con la diretta “No Direction”, un power thrash trascinante, viscerale e scarno, interrotto da una sezione arpeggiata interlocutoria in cui le mie critiche precedenti trovano piena argomentazione. Peccato, perché l’efficacissima semplicità dei riff e la batteria gagliarda del (relativamente) giovane Fabio Cannatà sono molto credibili. La title track ha un piglio più melodico, con il ritornello sculettante e un assolo ruvido e abborracciato, ma non privo di fascino. “Single Frame” sembra una poco riuscita riscrittura di “Blood Brothers” degli Iron e si arrotola su una melodia terzinata prima di diventare un brano cadenzato caratterizzato dal consueto strazio vocale ma anche da riff niente male. Power speed senza compromessi per la sparatissima “Make Your Bed And Lie In It” che conferma una facilità ed una felicità di scrittura esaltate dalla semplicità e dalla linearità. È davvero un peccato che questa produzione sia stata così poco curata, perché le belle canzoni ci sarebbero state: anche “Into The Unknown” è un brano i cui stop’n’go teatrali e riffacci scolpiti con l’ascia restano impressi con vero piacere. “A Light Breeze” parte come una (deboluccia) ballata e cresce fino a velocità insospettabili, proponendo una varietà di sezioni più articolata del solito, ma anche meno riuscita.
Altro brano bomba (inesplosa) sarebbe stato “Sacred Freedom”, una scheggia dalle dinamiche talmente collaudate da conquistare i cuori di ogni veterometallaro! Quasi quasi mi piace anche in questa versione che sembra cantata con una patata in bocca, talmente il brano funziona.
L’abisso compositivo del disco lo abbiamo con la pseudo ballata “The Sense Of Existence”, un giro di accordi arpeggiato privo di qualsiasi arrangiamento, che resta spoglio e irrisolto per tutti i suoi quasi cinque minuti, lasciandoci in ostaggio della voce di Sergio su quella che sembra una bozza di prova registrata improvvisando al volo. Impubblicabile.
Migliorano i risultati all’aumentare dei bpm, grazie all’infaticabile batteria di Fabio, anche se “Road To Paradise” è un gradino sotto rispetto alle sue sorelle speed. Bello il finale rallentato dalle atmosfere doom.
Con un riff che mi ha ricordato quello di “Raw Energy”, dal debutto dei Rage, viene introdotta su un tappeto di timpani tribali “A Strange Light In Your Eyes”, che si risolve presto in un canonico heavy, prolisso e di poche pretese, con tanto di “ooooh” e “yeeeeh” finali non troppo convinti.
L’ultimo brano, “Stars”, è una power ballataccia che patisce in maniera particolarmente impietosa di tutte le approssimazioni e trascuratezze che caratterizzano l’intero disco. La sua struttura armonica è molto canonica e il testo lascia a desiderare, ma nel suo genere non sarebbe stato un brano da buttare, se opportunamente curato.
Non so, io non pubblicherei mai un disco del genere: combatterei per migliorarlo e renderlo degno della passione e del talento e della storia che il gruppo possiede.
Marcello M
Tracklist:
- No Direction
- The King of Nothing
- Single Frame
- Make Your Bed And Lie In It
- Into The Unknown
- A Light Breeze
- Sacred Freedom
- The Sense Of Existence
- Road To Paradise
- A Strange Light In Your Eyes
- Stars
- Anno: 2024
- Etichetta: Autoprodotto
- Genere: Heavy Metal
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