Non sempre un buono storytelling corrisponde ad una effettiva eccellenza, non sempre il film è all’altezza delle aspettative attizzate dal trailer e temo che pure il terzo disco dei piacentini Red Sun non riesca a soddisfare la fame stuzzicata dalle loro stesse righe di presentazione, che ci raccontano di un trio nato jammando sotto le stelle in un vecchio mulino perso nelle campagne emiliane, formato da musicisti dalla “creatività senza confini” (sic).

Quello che ascoltiamo nei tre quarti d’ora di “From Sunset To Dawn” è un heavy space rock “psichedelico” strumentale in cui succede esattamente quello che possiamo aspettarci: brani che si dipanano con calma su sentieri ben battuti di scale pentatoniche, progressioni armoniche indolori, omogeneità stilistica e cromatica, atmosfere allargate in cui la musica sembra andare avanti da sola, con le note che scendono come gocce d’acqua da un rubinetto che perde, avvolgendoci gentilmente, senza sgomitare, senza pretese. Musica che, se càpita, si lascia ascoltare anche volentieri, ma che dubito vorremmo mettere su per scelta. Mi sono interrogato spesso sul perché questo stile goda di tanta popolarità tra i musicisti e sia genericamente ben tollerata dalla critica. Ha una sua dignità, un’identità, è facile da suonare, da comporre e da ascoltare, ha un elevato grado di autoindulgenza ed è ormai un classico senza tempo. Potrei argomentare ciascuna di queste affermazioni, ma non credo sia questa la sede.

Torniamo invece a parlare di Stefano, Mirco e Fede che, non più giovanissimi, mettono la propria esperienza ed il proprio talento al servizio di composizioni ben calibrate, rotonde, garbate, a volte persino eleganti, che vagano e ci fanno vagare nelle immensità di un cosmo che in realtà, a ben guardare, è grande come un pentolino. È una luna nel pozzo. I confini autoimposti da un genere, che dipinge fondali di stelle e pianeti su delle quinte che non si azzarderebbe mai a sfondare, ci vorrebbero far credere che l’immensità del cosmo sia raggiungibile con astronavicelle in vetroresina da fiera di paese. Tutto quello che udirete in questo disco vi sembrerà di averlo già sentito. E forse vi piacerà proprio per questo: l’album è un biglietto diretto per una destinazione precisa e rassicurante, che sarete certi di raggiungere premendo play. Non c’è nulla di male. Del resto, che l’originalità non fosse una loro priorità lo avevamo capito già dalla scelta del nome della band.

In compenso i nostri hanno avuto davvero una bella idea per dare più incisività a questa raccolta di brani, immaginandoli come un percorso dal tramonto all’alba, con le composizioni che si susseguono cronologicamente lungo lo svolgersi di un’ipotetica notte condensata in quarantaquattro minuti. E poco importa se per Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae, le parti della notte fossero solo sette.

Incominciamo con “We’re Once Was Light” che minacciosamente (ma sempre dolcemente) sottolinea l’avanzata delle tenebre, ancora messa in dubbio su “The Sunset Turns Purple”, epica e dotata di melodie efficaci, con i synth del batterista Fede che sembrano suggerire una linea vocale fantasma. Il brano ha un che di “narrativo“, una certa potenza evocativa e descrittiva che ci permette di immaginare e visualizzare una storia. Niente male! Inoltre il suono organico, realistico e vivo della produzione fotografa questi affiatati musicisti dal loro profilo migliore, consegnandoci un’esperienza di ascolto davvero gradevole e rigenerante, rispetto a tanta musica artefatta.

La notte continua con “A Violent Dusk” che, a discapito del titolo, mantiene i toni abbastanza tranquilli, con brandelli di solismo chitarristico un po’ dispersivi su un ciclico reiterarsi ritmico sempre più denso ma incapace di risolversi in un apice emotivo che giustifichi il pezzo, che infatti finisce sfumando, con una nota di corda a vuoto ripetuta come campana a morto.

Una leggera cavalcata a dorso di pony con le sue piccole impennate è l’immagine che mi ha evocato “The Shape Of The Night”, che poi evolve in un ambiente più liquido dove ancora una volta è la batteria lo strumento che più di tutti si prodiga nel mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore, che è sempre più incline ad abbandonarsi alla parte più inoperosa della notte, che prende il meraviglioso nome di “Intempesto”, e che i Red Sun ben restituiscono musicalmente con semplicità e ponderata parsimonia. “The Coldness Of The Moon” è il brano più spigoloso e relativamente aggressivo, con un alternarsi di temi di facile presa e una ormai consueta sezione rarefatta centrale da cui ripartire, pur senza aver individuato una strada particolarmente vincente o avvincente.

Towards The End Of Darkness” coi suoi bei giochini metrici si concede un po’ di ginnastica, ma sempre all’interno di una palestra piuttosto angusta e datata.

Come tutti sappiamo, il sole nascente arriva da est, quindi è lecito aspettarci su “The New Sun” qualche esotismo sonoro caratterizzato da quelle che noi “occidentali” consideriamo contaminazioni orientaleggianti. La chitarra di Stefano ci regala fraseggi melodici alternati a tratteggi più astratti abbozzati su una maglia ritmica insistita costituita da un basso sempre ancorato al fondo e una batteria continuamente desiderosa di andare da qualche parte.

Il disco è finito, un altro giorno è arrivato e noi non ce ne siamo quasi accorti: il nuovo sole è spuntato senza fare rumore, senza clamore, ignorato dai più, dato per scontato. Come quasi ogni mattina.

Non voglio dire che sia soporifero, ma se avete delle notti di sonno da recuperare, qualche ascolto di questo “From Sunset To Dawn” potrà esservi di aiuto. Notte in pillole.

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Where Once Was Light
  2. The Sunset Tums Purple
  3. A Violent Dusk
  4. The Shape of the Night
  5. Intempesto
  6. The Coldness of the New Moon
  7. Towards the End of Darkness
  8. The New Sun
  • Anno: 2024
  • Etichetta: Subsound Records
  • Genere: psychedelic-heavy space rock

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