Stoner rock strumentale per il debutto di questo trio veneto. E potrei anche chiudere la recensione qui, dato che “48 Moon” contiene esattamente quello che vi potreste aspettare dall’epigrafe introduttiva: viaggi psichedelici dallo spazio al deserto, cavalcate sui crash, pentatoniche sfrigolanti e tutto il collaudatissimo repertorio di luoghi comuni del genere.

Quarantotto lune sono anche l’arco temporale durante il quale la band dichiara di aver composto il disco. Ora, se proprio volessi giocare a fare lo stronzo, direi che probabilmente sarebbero state sufficienti quarantotto ore per mettere in fila questo campionario di riff, ritmi e situazioni così candidamente derivativi, confortanti e appaganti nella loro familiarità. In un certo senso è una bella sensazione quella di trovare conferme alle nostre previsioni, ma almeno nella musica credo sia fisiologico aspettarsi qualcosina di più, magari addirittura qualche sorpresa o, che ne so… un’idea.

Ma allora i The Magogas fanno schifo? Questo non lo penso affatto: la loro musica dimostra capacità, consapevolezza e conoscenza della materia. Apprezzo moltissimo il loro saper puntare maggiormente sulla componente energica rispetto a quella psichedelico/ombelicale di tanti colleghi e li trovo abilissimi nel condurre le dinamiche, sia in termini di intensità che di tempo. E, di questo, la principale responsabile credo sia la batterista Lisa Cappellazzo, vera capitana dell’astronave e detentrice delle mappe spaziali: tra ritmi semplici e fragorosi, controllando accelerazioni e frenate, riesce sempre a mantenere una tensione elettrica e vitale anche nei momenti più dilatati e rilassati, senza necessità di strafare e con genuina autenticità.

L’invenzione melodica in sede di riff e assoli di basso e chitarra è a dire il vero piuttosto ordinaria e sembra di essere più al cospetto di bravi artigiani che di gente con delle cose da dire. Ma le chitarre di Jacopo Nava ogni tanto regalano incursioni metalliche insospettabili e sembra saperla più lunga di quanto non dimostri. Fabio Cester potrebbe essere il bassista oggetto del desiderio di tanti gruppi, dato che va dritto a testa china a fare quello che deve, senza obiezioni o velleità strane, basta solo che lo lasciate sgambare tra le sue pentatoniche.

Un altro merito da riconoscere ai The Magogas è che, nonostante la composizione patchwork dei brani, in cui c’è un po’ di tutto dappertutto, già dopo i primi ascolti ero in grado di distinguere le singole tracce e ora riesco perfino a recitare la scaletta a memoria! Niente male per delle canzoni senza le parole e senza la forma di una canzone…

Ecco, a proposito: la band rivendica la scelta di non avvalersi della voce proprio per non “distrarre” l’ascoltatore. Anche se devo ammettere che in questo caso hanno avuto ragione, mi colpisce sempre come i gruppi strumentali sentano poi spesso la necessità di verbalizzare, argomentare e raccontare i significati dei vari brani, come se fossero i primi a percepire una carenza comunicativa nella sola componente musicale, senza un cantato a “giustificarle”.

Tra i titoli più significativi ho apprezzato “Lunar Seal”, che ruba l’intro ai Led Zeppelin e poi si srotola in una  serie di sezioni a intensità variabile con grande disinvoltura; “The Cemetery Of The Good Intentions” (affollatissimo…) col suo arpeggio iniziale grunge e le sferzate heavy alla Corrosion Of Conformity; la scattante “Nicoletta The Harlot”, il bellissimo rallentamento prima della parte “orientaleggiante” (un po’ gnegna…) di “Too High To Sea The Coast” e l’altrettanto valido crescendo.  Ho apprezzato anche l’autoironia di “Polish Brick” (due copie vendute), augurando agli autori di aver già superato i ventiquattro anni…

Ecco, probabilmente sbagliavo nel cercare l’originalità nella forma dei mattoni, anziché nella costruzione dei muri: la forza della band consiste nell’assemblaggio sapiente di elementi parzialmente prefabbricati, dimostrando in ciò una certa innegabile maestria.

la conclusiva “Closure” propone quello che mi è parso il primo vero riff degno di nota, ma ripiega presto su scelte di progressioni armoniche molto convenzionali, che fanno da scenario a un lungo assolo ̶m̶a̶s̶t̶u̶r̶b̶a̶t̶ liberatorio.

P. S.

Ora, se proprio volessi giocare a fare quello che prima si fa un cannone e poi decide di riascoltarsi il disco, direi che in fondo in fondo, il suono pompato e saturo è veramente coinvolgente, sembra di poter cavalcare quelle enormi corde di basso come serpentoni del deserto, mentre le stelle cadono e le foche volano. I riff sono meno banali di quanto sembrasse, ma posso fare su e giù con la testa senza mai essere tradito o deluso da vezzi compositivi radical chic. “Cemetery…” è un pachiderma corazzato che alla fine tira fuori un ombrellino. Ma quanto vortica quel basso su “Nicoletta…”?

E niente, alla fine non è poi mica male…

P. P. S.

Ma è quella che fa?

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Lost In The Fog 
  2. #5
  3. Lunar Seal
  4. Cemetery Of Good Intentions
  5. Nicoletta The Harlot
  6. Polish Brick
  7. Too High To See The Coast
  8. Despotic Bitch’s Blues
  9. Closure
  • Anno: 2024
  • Etichetta: Go Down Records
  • Genere: Stoner Rock

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