Attivi dal 2014 i Drown In Sulphur hanno negli anni rilasciato due EP e 6 singoli, approdando nel 2021 al loro primo full “Sulphur Cult” e a distanza di dieci anni dalla loro fondazione al secondo full “Dark Secrets Of The Soul”. Da queste scarne notizie, rintracciate un po’ a fatica in rete data la virtuale assenza di un press-kit, sembrerebbe la classica trafila di una formazione underground. E invece con questa band mi sono trovato a fare i conti con la quintessenza del fare musica contemporaneo, la musica nell’era dello streaming digitale.
Sì perché le poche note “ufficiali” rintracciate tengono a sottolineare, pure evidenziando anche un’attività live al fianco di nomi di tutto rispetto della scena deathcore, l’impatto dei lavori dei Drown In Sulphur a livello di visualizzazioni Youtube e streaming su Spotify. Numeri da far girare la testa.
Ma se l’approccio al mercato (evidentemente vincente) è chiaramente figlio dei tempi, è la musica prodotta a rendere chiaro, cristallino, quello che è un approccio moderno al metal (nel caso specifico). Che non si fatica a riconoscere in molte produzioni contemporanee.
I Drown In Sulphur propongono, a grandi linee, un “blackned deathcore”. Ovvero iniettano soluzioni di sapore black metal in quel sound death ipercompresso di matrice USA, per dirne uno: i “Job For a Cowboy” era “Genesis”.
Si prenda ad esempio “Eclipse of The Sun Of Eden” che inizia con un’epicità pomposa e pagana di ispirazione “Behemoth”, per virare su un un death furiosamente in blast beat che mi ha ricordato i “Veld” di “Daemonic/The Art Of Dantalian”. A sorpresa (ma poi ci si fa l’abitudine) subentra un breakdown ultrarallentato di marca brutal, di quelli con il basso corposissimo a supportare il palm muting sincopato delle chitarre ribassate. Il riffing è prima fortemente influenzato da un djent ricco di dissonanze e poi diventa definitivamente ignorantissimo commentato da uno scream acidissimo. A seguire un arpeggio evocativo introduce una sezione che mi ha ricordato i “Dark Fortess” in cui i sinth articolano le atmosfere di uno skank-beat velocissimo prima e di un mid tempo in cui doppia cassa e alternate picking dominano. Altro break-down con ritmica sincopata arricchito da fills in ghost-notes sul rullante ad introdurre una (breve) parte sinfonica orchestrata come saprebbero fare i “Dimmu Borgir”. Il breakdown che ne consegue è ultra-ultra-rallentato, quasi di sapore funeral-doom, sapientemente cavalcato da un growl profondo e nitido. Si riparte riprendendo la sezione “Dark Fortress” (per capirci) e si chiude con un conciso ma efficace ritorno del tema centrale arpeggiato.
Chiedo venia per la “telecronaca” ma è particolarità dei Drown In Sulphur quello di “servire” una serie di gustosissimi assaggini, perfettamente preparati, ineccepibili. Come fossimo ad un banchetto gourmet preparato da uno chef dalla tecnica impeccabile, capace non solo di confezionare ogni (ridottissima) porzione con qualità da manuale ma, anche, di definire la sequenza delle (micro)portate in modo che i gusti, ancorchè contrapposti, definiscano una perfetta armonia per il palato.
Tecnica di songwriting che è sicuramente peculiare del deathcore, dello slam o di certo mathcore (penso ai “Cephalic Carnage” di “Xenosapien” per esempio) ed è in qualche modo anch’esso “figlio” della digitalizzazione della musica: i riff diventano blocchetti/samples da giustapporre. Certamente la versione “canonica” di questo modo di comporre non prevede particolari cambi di registro (se tralasciamo le aperture in clean dei “Cattle Decapitation”), mentre la “ricetta” dei Drown In Sulphur combina frammenti “archetipici” di diversi sottogeneri del metal estremo, trattandoli come i jazzisti trattano gli “standard”. Come tasselli di un mosaico. Solo che qui le varie “tessere” non costruiscono un disegno figurativo, ma geometrie astratte/equilibri di colore, alla Mondrian/Kandisky.
Saltato il discorso “strofa-ritornello” (non che io ne senta il bisogno) incontreremo come dato certo il breakdown sincopato, a volte arricchito da efficaci trame melodiche sinistre, epiche e sognanti come in “Buried By Snow And Hail”, ad articolare sezioni caratterizzate da un riffing che, supportato da blast-beat ferocissimi o s-beat rapidissimi, trae ispirazione dal pagan black epico (sempre in “Buried By Snow And Hail”), dal death melodico (“Unholy Light”) o da certo “fast black” di stampo norvegese (“1349”) o svedese (”Dark Funeral”).
Sicuramente a loro agio sulle famose ritmiche sincopate in mid tempo, inclini sovente a tempi dispari e a derive djent, ai Drown In Sulphur va riconosciuta senz’altro la capacità di costruire sezioni epiche e atmosferiche di grande impatto e respiro, grazie anche alle linee vocali che risultano molto espressive tanto nel registro del growl che dello scream. In “Unholy Light” si fanno notare senz’altro l’intro dal sapore doom/industrial quanto la sezione con arpeggio in clean commentata dalla doppia cassa e da uno scream molto emotivo.
Nello schema compositivo dei nostri si pone in maniera differente “Lotus”, aperta da un arpeggio pulito commentato da un recitato aspro. Lo sviluppo si presenta più progressivo e progressive ed “esplode” in un mid tempo costruito da power chords e sinth sorretti da un drumming rarefatto su cassa e rullante ma arricchito di flares sul rullante e sui tom, e coronato da cori in clean che richiamano i “Pink Floyd” in contrappunto ad un bel growl profondo e narrativo. La sezione solista propone uno sviluppo impeccabile tra linee melodiche, shredding e sweep picking. Composizione questa retta da una perfetta simmetria.
La Title track “Dark Secrets of the Soul” sembra voler riprendere nell’incipit la stessa costruzione della precedente, confezionando un piccolo gioiellino che mi ha ricordato certe soluzioni “in epico crescendo” dei “Moonsorrow” di “V: Havitetty”, con le parti strumentali arricchite da un ispirato duettare di voci pulite sui registri molto alti e un growl medio-basso. Lo sviluppo procede su binari thrash-metal, con ritmiche in alternate sincopate, ma introduce un tema di matrice pagan eseguito in tremolo picking. Si torna insomma alla formula delle “giustapposizioni contrastanti”, questa volta lavorando fondamentalmente su due registri. Fino ad un contributo solista “da manuale” che ci consegna alla sezione finale in cui un lick di chitarra in terzinato “nobilita” e rende fluido il classico breakdown sincopato.
“Say My Name” ci introduce con un riff che ricorda un sitar ad una sezione di marca “Behemoth“, con belle melodie dal sapore orientaleggiante che “galleggiano” su un ritmo sincopato marziale ed autorevole. Non stupisce (ormai) che la marcia in sincope approdi ad una di gusto più slam/brutal con le chitarre che lavorano su due registri, con dei licks acutissimi che cedono il campo ad un riff a note rallentatissimo e ultra-ribassato.
“Vampire Communion” è una outro anticipata, impostata su un arpeggio in clean e sinth ampi sui cui si staglia un recitato in growl doppiato dallo scream. Colgo l’occasione per parlare della vera intro all’opera, “Adveniat Regnum Tuum” che, con il sottofondo di un ronzio di mosche (credo) ci presenta una voce recitante che pare provenire dallo scarico del lavandino (se fosse il film IT), o da una trasmissione radio proveniente dallo spazio profondo, se non direttamente dalle profondità infernali. Insomma un classico espediente da film horror per creare tensione, compreso l’aumento di volume cui doveva corrispondere l’esplosione della prima traccia (esplosione che non c’è stata, dato che si inizia con arpeggio).
Chiude il lavoro “Shadow Of The dark Throne” che apre con un arpeggio pulito commentato da delicati solismi di chitarra. Lo sviluppo ha il gusto di certo speed/thrash metal commentato da delle fughe di sinth, per poi assestarsi sul caratteristico riffing sincopato dei nostri, arricchito in questo caso da licks chitarristici di matrice technical death e punteggiature di sinth. Le fughe di sinth tornano, sorrette da da una doppia cassa serrata e un riffing più corposo, dando il pretesto per un gioco di chiaro-scuri piuttosto evocativo. Si procede tra aperture sospese ed esplosioni di corposa epicità per approdare ad un breakdown funeral rallentatissimo e impreziosito da pig-squeal prima, scratch e poi una fuga solistica neoclassica. Il brano si chiude, dopo una sezione ambient bisbigliata, con una cavalcata retta dai sinth e da un drumming (mi ha ricordato certe cose dei “Kalmah”) che offre diverse interpretazioni (blast, doppia cassa, mid tempo, sincopato) per chiudere con una svisata di chitarra alla “Malmsteen“.
Un lavoro questo dei Drown In Sulphur, frutto del lavoro di musicisti preparati tecnicamente e che conoscono a fondo la materia, che presenta un approccio compositivo piuttosto chiaro. A mio parere, per l’estrema varietà dello spettro di “registri” adottati, ma non filtrati da una sensibilità compositiva originale, è un lavoro che appare più figlio dell’era delle playlist che da un’ansia di contaminazione. Parere personale ma a tratti ho l’impressione che i vari stili, che ribadisco sono concepiti ed eseguiti con estrema perizia, siano a tratti indossati come vestiti e non assimilati e riproposti con una personalità melodico/armonica caratteristica e riconoscibile.
Samaang Ruinees
Tracklist:
- Adveniat Regnum Tuum
- Eclipse of the Sun of Eden
- Buried by Snow and Hail
- Unholy Light
- Lotus
- Dark Secrets of the Soul
- Say My Name
- Vampire Communion
- Shadow of the Dark Throne
- Anno: 2024
- Etichetta: Scarlet Records
- Genere: Balckened Deathcore