Ti va di recensire un gruppo stoner/sludge?

Mah… perché no? Così, Quando ho aperto la cartella con i file del gruppo, dopo aver letto una presentazione con qualche ingenuità, e dato un’occhiata al minutaggio dei brani, mi sono preparato e rassegnato ad infliggermi ripetuti ascolti di quella che si prospettava una palla micidiale, pretenziosamente intenzionata a occupare ore del mio preziosissimo tempo…

Per fortuna, buona parte delle millantate complessità e sfaccettature musicali adombrate nella biografia del gruppo si sono rivelate sincere e le mie esperienze di ascolto di “Whirlwind Hymns” sono state piacevoli, interessanti e ricche di sorprese!

Attivi da quasi otto anni, i quattro marchigiani non mentono quando dichiarano di aver lasciato che la propria bussola sonora, inizialmente orientata verso lo “Sludge”, si allargasse verso una varietà di orizzonti stilistici che lambisce le sponde del Doom, del Progressive, di quello che una volta chiamavamo “Indie” e pure del Metal estremo.

Iniziare il disco con due brani da dieci minuti dimostra una certa fiducia in sé stessi, ma forse anche un eccesso di fiducia nell’ascoltatore, che dopo due minuti e mezzo di arpeggi nebbiosi si trova al vero inizio di “Where The Deserts Collide”, un classico e cadenzato Doom fatto di riff funerei, colpi possenti e rarefatti, una voce declamante che ricalca le chitarre e nessuna fretta. Quando entra la doppia cassa, grassa e melmosa, sembra di risentire Armando Acosta, mentre la voce si incattivisce e sembra che il pezzo possa esplodere, ma le chitarre ciondolano sui soliti due accordi e tutto si spegne di nuovo, per preparare il vero crescendo finale. Tutto carino e gradevole (incluso l’accordo maggiore conclusivo), ma fin qui nulla di entusiasmante. Sicuramente un miglior biglietto da visita sarebbe stata invece ”An Enveloped Prophecy”, i cui dieci minuti vengono sfruttati in maniera molto più ricca e intrigante: introduzione solenne con riff trillato alla My Dying Bride a destra e chitarroni di accompagnamento a sinistra, con una sovrapposizione tra voce pulita, lamentosa e cantilenante e lo scream. Poi abbiamo un aumento della componente epica, con riff minacciosi che si stagliano su timpani battaglieri e una sorprendente vocalità che ricorda i primissimi Candlemass o, meglio ancora, i Nemesis di Leif Edling: roca e stentorea. A confermare le radici stilistiche, arriva l’assolo, plasmato sull’inconfondibile “trillo legato” su cui Dave Chandler ha impostato la carriera, che sfuma in una coda rarefatta, tra i consueti tamburi tribali, vocalizzi sinuosi e ancora l’accordino maggiore sul finale.

Hopediver” propone il solito canovaccio di timpani e accordi, su cui però viene ricamato un cantato confidenziale dal sapore inaspettatamente grunge che man mano si sporca, si carica di vibrazioni basse e raucedine e, quando le progressioni di accordi indie si gonfiano di energia, esplode in un gridato mononota di forte intensità, dimostrando un ottimo controllo delle dinamiche. Il finale epico, declamato con intensa espressività, è un richiamo diretto ai Crowbar.

Ecco, l’elemento che maggiormente mi ha colpito è la disinvolta versatilità nell’uso delle voci: sarà il fatto che ad occuparsene siano sia il bassista Frank sia il chitarrista Rust, ma la quantità di stili e sfumature di intensità utilizzati (sempre eseguiti in maniera più che dignitosa) è veramente notevole! Questa varietà segna veramente una differenza tra i Falling Giants e tante band che credono basti grugnire un po’ e tenere gli accordi lunghi, per raggiungere la sufficienza al liceo dello Stoner/Sludge. Inoltre il suono è organico, quasi live, con scelte di produzione coerenti all’idea di respiro e autenticità indispensabili alla credibilità di un disco del genere.

La canzone con cui mi hanno veramente convinto è però la camaleontica “Fall Meditation”, dove abbiamo un delizioso contrasto tra il riff accattivante, cromatico e “stonerino” (Cathedral?), e un riuscitissimo growl alla John Tardy. Poi ci si lancia in una cavalcata irresistibile che sa di High On Fire, si frena in una rotonda di due accordi che nel giro di pochi secondi di litania armonizzata evoca i Voivod psichedelici dei primissimi anni novanta, per poi passare a vocalizzi alla Red Hot Chili Peppers (!), finché la voce non diventa pian piano quella di uno stregone col mal di gola. Nonostante la coda strumentale un po’ prolissa, credo che questo resti il brano migliore dei Giganti, con le migliori intuizioni melodiche e dinamiche.

Wind Shifts” è uno scarno strimpellare acido in 7/8 che sa di improvvisazione, mentre un vociare un po’ generalista (prima nenioso, poi gridato) prova ad imbastire un argomento, senza successo, finché la jam si spegne.

Grido di sfogo e partenza up tempo  per “To Paint Woes”, caratterizzata nella galoppata Sludge da un cantato decisamente meno convincente del solito, che migliora un pochino nel brusco passaggio alla breve sezione “Black”. Il resto del brano è interessante per i cambi di velocità, ma delude in tutte le vocalità adottate (sì, anche quella specie di Danzig sfiatato e quel SuperSlot incazzato).

Classico incipit Doom con chitarre armonizzate, basso distorto e timpanoni per la conclusiva “The Trail Of Dust Men”, con voce solenne ed evocativa, anche se abborracciata e stonacchiata e un bel sintetizzatore monofonico e speranzoso a glassare il riff. L’accompagnamento si riduce ad un reiterarsi dei soliti accordi (e dei soliti intervalli) chiudendosi arbitrariamente dopo sei minuti. La seconda parte del brano riparte da un arpeggio con un cantato un po’ grottesco che ricorda nelle atmosfere i primissimi Tiamat, mentre il momento migliore del pezzo, con tanto di riffone, mi sembra di averlo già sentito su un disco dei Bathory… Il vocalizzo finale, purtroppo, è la peggior performance cantata di tutto l’album, ma la mia impressione generale sui Falling Giants resta positiva. È vero, “Whirlwind Hymns” riprende, a volte pedissequamente, tutti gli stilemi dei generi citati, eppure si coglie una scintilla creativa che può farli uscire dall’autoindulgenza ombelicale a cui sono condannati tanti loro colleghi e credo che questa vada premiata. E soprattutto nutrita.

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Northwest Passage/Where the Deserts Collide
  2. An Enveloped Prophecy
  3. Hopediver
  4. Fall Meditation
  5. The Wind Shifts
  6. To Paint the Woes
  7. The Trail of Dust Men
  • Anno: 2023
  • Genere: Stoner Sludge
  • Etichetta: Autoprodotto

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