I ferraresi Game Over vinsero immediatamente la mia simpatia e stima grazie al titolo del brano di chiusura del loro album di debutto, più di dieci anni fa: quella “Tupa Tupa or Die” era una dichiarazione di intenti talmente genuina, autoironica ed irresistibile, da perdonare o addirittura avallare tutti i revivalistici cliché adottati dai nostri.

Non li si può quindi accusare se, in occasione del quinto album, i quattro ragazzi cerchino una nuova identità rispetto al vintage thrash dei lavori precedenti, esplorando con questo “Hellframes” territori più melodici e morbidi, proprio come fecero a loro tempo tanti dei gruppi che diedero i natali al genere.

E, proprio come accadde ad inizio anni novanta con i (inserisci a piacere grosso nome del Thrash), noi headbanger ci troviamo spiazzati e perplessi, indecisi se plaudire al nuovo corso o lamentarci perché “non sono più quelli di una volta”. Personalmente non ho mai avuto grossi problemi a digerire cambi di stile, ma solo qualora fossero supportati da una scrittura valida: datemi delle belle canzoni, non importa in quale stile!

Anche con i Game Over, il prezzo da pagare nell’affacciarsi su un panorama più melodico consiste nel fare i conti con le melodie vocali: chi si era abituato a sbraitare e berciare per anni, si trova ora a fare i conti con l’intonazione, con risultati non sempre brillanti…

Renato Chiccoli, frontman e bassista, ce la mette tutta a infondere pathos alle melodie, ma è ostacolato da un lato da testi non particolarmente ispirati, dall’altro dai propri stessi limiti canori (e di pronuncia).

Lasciata alle spalle l’intro tastieristica, siamo subito buttati nel cuore del pogo con il ritornellaccio old school a filastrocca di “Call of The Siren”, una canzone tirata ma molto accessibile, costruita con perizia artigianale nel pieno rispetto delle regole (forse pure troppo).

Path Of Pain” sceglie ritmi più cadenzati e atmosfere oscure, con una strofa narrativa ed epica, brevi fraseggi di chitarre armonizzate e un ritornello non particolarmente memorabile, salvato dal gustoso stop’n’go ritmico.

Iniziamo ad avere qualche perplessità su “The Cult”, brano simile al precedente, ma cantato decisamente peggio, dotato di una buona atmosfera, ma privo di riff veramente efficaci.

E la ballata? C’è, c’è, tranquilli… E inizia con una schitarrata da spiaggia malinconica che cresce gonfiandosi fino ad un ritornello troppo tirato via e stonacchiato per coinvolgere emotivamente. Anche l’auspicabile accelerazione del brano non porta ad un vero e proprio decollo, lasciandoci in una zona di prevedibilità dalla quale usciremmo volentieri, nonostante gli assoli ed esecuzioni strumentali siano sempre all’altezza. In chiusura si torna alle atmosfere da falò sulla sabbia, ma di quelli in cui se vuoi limonare è meglio che stacchi una “nothing else matters” e lasci da parte i tuoi brani…

Atonement” è una strumentale massiccia e marziale che fa da transizione verso la lunga “Deliver Us”, composizione up tempo che propone il riffing più serrato dell’album ed un ritornello di facile presa grazie alla sua reiterazione, ma che stenterei a definire bello. Interessante la parte centrale cadenzata, anche se un po’ gratuita.

Come ogni disco Thrash di un tempo, c’è anche la classica canzone sulla droga, una veloce e godibile “Synthetic Dreams”, che passa rapida e indolore, ma facendoci muovere il piedino!

Per un ultraquarantenne come me è inevitabile riscontrare in “My World Is Screaming” le atmosfere e le melodie dei Paradise Lost di Draconian Times, evocati fin quasi al plagio.

La title track conclude il disco riprendendo i temi melodici dell’intro e propinandoci una storiaccia di inquisizione e antichi culti segreti. La canzone non è male e si avverte lo sforzo nell’inserire elementi musicalmente interessanti, ma non arriva mai il momento “wow” e la sensazione generale è un album del quale ci si debba accontentare, non per il quale entusiasmarsi.

Aggiungo in chiusura una considerazione marginale, ma non del tutto campata in aria: durante uno degli ascolti del disco ero andato in un’altra stanza e, sentendo la musica attraverso il filtro della parete, ho avuto la netta sensazione che fosse cantata in italiano. Questo mi ha fatto pensare che probabilmente un tentativo di scrittura in lingua madre potrebbe giovare parecchio ai Game Over, ma è solo una mia fantasia.

Insomma, purtroppo la scelta di togliere il piede dall’acceleratore ha evidenziato alcune lacune di scrittura, interpretazione e “cose da dire”, anche se supporto in pieno il desiderio della band di confrontarsi con uno stile più variegato.

 

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Visions
  2. Call Of The Siren
  3. Path Of Pain
  4. The Cult
  5. Count Your Breaths
  6. Atonement
  7. Deliver Us
  8. Synthetic Dreams
  9. My World Dies Screaming
  10. Hellframes
  • Anno: 2023
  • Genere: Thrash
  • Etichetta: Scarlet Records

Links:

Facebook 

Instagram

Sito Ufficiale

Spotify

 

Autore