Quando ho ricevuto il (professionalissimo!) press kit dei milanesi Calico Jack, non avendo l’immediata possibilità di ascoltare le tracce, ho letto tutta la dettagliata presentazione in cui la band dichiara candidamente le proprie influenze (FintrollKorpiklaaniMoonsorrowEquilibriumRunning Wild…), spiega il concept piratesco e presenta la ciurma. Beh, credevo di avere già la recensione in pugno senza nemmeno aver sentito una nota, forte dei miei pregiudizi e delle mie congetture, pronto a valutare con sufficienza l’ennesima pirate band alcolica alla Alestorm. Per un giudizio più rotondo e completo, però, decido di iniziare ad ascoltare la band a partire dal precedente, omonimo, album di debutto e… ci rimango di merda! Eh già, perché la loro stessa pubblicità ingannevole ce li propone come simpatici e ballerecci bevitori di rum e si guarda bene dal rivelare che in realtà ci troveremo nelle orecchie una sorta di extreme prog decisamente più vicino alla foga dei 3 Inches Of Blood che alle danze humppa!

Isla De La Muerte” è un upgrade del disco d’esordio e ne ripropone buona parte dell’ossatura (il pezzo “caraibico”, lo “sea shanty”, la suite da un quarto d’ora…) in una versione migliorata e potenziata sotto tutti gli aspetti. I fratelli Toto (chitarra) e Caps (batteria) hanno arruolato un equipaggio di tutto rispetto, tra cui un vero marinaio al basso, un virtuoso professionista alla chitarra solista e un violinista dal retaggio folk. La produzione esperta di Mattia Stanicioiu e una splendida copertina di Sergey Vasnev confezionano al meglio la proposta del sestetto, che pur rispettando tanti canoni stilistici, esprime un’identità innegabile. I Calico Jack infatti ce la mettono davvero tutta nel cercare di movimentare un po’ la prevedibile e limitante struttura melodica e armonica dei canti marinareschi e folklorici che si aggrumano nell’immaginario collettivo in un tanto vago quanto condiviso concetto di “piratesco”. E devo riconoscere che in effetti gli spiazzanti giochi ritmici con cui viene spezzata una rischiosa banalità hanno successo, catturando l’attenzione dell’ascoltatore per qualche istante, prima che un senso di affaticamento e disinteresse torni ad impossessarsi di noi. La maestria e lo sforzo compositivo della band sono innegabili e spesso portano a risultati vincenti, eppure la sensazione generale che ne ho avuto è più vicina alla noia che all’entusiasmo. Provo ad argomentare meglio.

Superato lo stupore iniziale e constatato il fatto che avrei dovuto ricostruire completamente la mia idea del gruppo, ho ascoltato con vivo interesse le canzoni, apprezzando di volta in volta elementi di peculiarità e gustose invenzioni, ma mi ritrovavo poco dopo con un senso di insoddisfazione, come se la narrazione avesse perso il filo. Probabilmente giocano un ruolo determinante in questo effetto le lunghezze importanti dei brani, la prolissità delle parti strumentali, il suono di batteria supercompresso (che toglie dinamismo e respiro alle composizioni) e la monotonia sgraziata e poco carismatica (e non sempre a tempo) del growl di Giò, che getta un’ancora pesantissima per la navigazione. Il repertorio melodico, inoltre, è tutto piuttosto derivativo, sia quando si tratti di fraseggi pescati dal calderone tradizionale, sia per i riff di stampo Metal, ognuno riconducibile ad una band di riferimento. I momenti più interessanti infatti sono proprio quelli in cui interviene una qualche trovata a scompigliare le carte.

Il disco viene introdotto da un fraseggio di violino e ci mette due minuti prima di salpare a vele spiegate all’arrembaggio (lo so, le mie metafore marinare sono terribili… Ahrrr!) ma quando esplode è una cavalcata travolgente ed epica (nella parte in blast mi ha ricordato pure i Bal-Sagoth!) ed è stata giustamente scelta come primo singolo. Più di una perplessità mi coglie però riguardo al videoclip e non solo perché non è stato girato a Gardaland (in realtà si tratta del locale di un ristoratore dal dubbio gusto, appassionato di pirati): la ciurma appare smorta, priva di un reale entusiasmo o coinvolgimento ed è tutto pericolosamente in bilico tra un’autoironia poco esplicita e l’imbarazzante. Diciamo che leggendo delle prodezze millantate nella biografia mi aspettavo qualcosina in più.

La lunga title track si apre con una sezione che sembra la versione minacciosa degli Angra di Holy Land, seguita da un riff thrash blues che porta impresso il copyright “Mustaine” a caratteri cubitali. Il tetro e potente coro del ritornello è uno dei momenti più belli del disco, e il successivo tema melodico viene riproposto in varie salse con notevole disinvoltura tra improvvise sviolinate irish e rifferia thrash. Bello! A mio parere ci si dilunga un po’ troppo, volendo infilare dentro di tutto (quei terribili “oh oh oh”?), allungando il brodo solo per chiudere con altri riff noleggiati dai Megadeth.

Restando in tema di “prestiti”, “Bad Fortune” è un dichiarato omaggio alla band di Capitan Rolf, proponendosi come il miglior brano dei Runnig Wild degli ultimi vent’anni, sabotato però da un cantato non all’altezza e da un eccessivo minutaggio.

Antigua” rievoca le atmosfere di “Caraibica”, il brano del debut album che mi lasciò a bocca aperta, senza ripeterne la magia. Bellissima introduzione di chitarra acustica, interessante il cantato in spagnolo, anche se in testa mi risuona solamente “questo è l’ombelico del mondooo!”. Colpa del basso?

Si balla senza freni su “Three Cheers To The Shanty Man”, il tipico brano che mi sarei aspettato dai Jack facendo affidamento ai miei preconcetti: un pezzo sparato e senza fronzoli costruito attorno ad un canto di mare, una classica drinking-song.

Altro brano analogamente efficace grazie alla sua struttura snella e tradizionale è la spedita “Marauder”, con il basso bene in evidenza, una serie di fraseggi collaudati e una performance vocale che, nonostante la grande energia e l’entusiasmo, presenta imprecisioni ritmiche e di pronuncia.

Il riffing torna a farsi estremo ed aggressivo nella torva “Queen Anne’s Revenge”, dove si ripresenta l’alternanza tra le melodie folk e il groove thrash. Il fraseggio di violino che accompagna il ritornello riesce a conferire la giusta atmosfera senza essere banale o scontato e rimane l’elemento che unifica una composizione poco organica, piena di “hey!” e un po’ alla deriva.

La scheggia “Haul Away Joe”, rimaneggiamento di uno shanty esistente, gode della propulsione di riff di chitarra scalpitanti e irrefrenabili, anche se è un magro pasto (poca ciccia).

Ho trovato quasi inevitabile, ma comunque intelligente da parte di una pirate band italiana, la scelta di dedicare al “Sandokan“ di Salgari la lunga suite che chiude il disco e che a mio avviso contiene le sezioni più emozionanti dell’album. L’introduzione che evoca un sapore indiano (ovvero i Beatles di “Within you…”) si fa interessante con l’ingresso delle percussioni e l’utilizzo di un riff ricorrente che connota ritmicamente il brano in maniera accattivante e convincente. Massicce e coinvolgenti le strofe. Alcuni elementi della lunga composizione sono meno efficaci, ma vengono riscattati dall’ottimo lavoro di arrangiamento e cucitura delle parti, ottenuta  con tagli, giochi ed invenzioni che permettono ai minuti di scorrere veloci, tanto da arrivare presto al cuore epico del “ride with the Tigers of Mompracem!” e del successivo “Fight on Sandokan!” belli carichi! Il brano regge la lunga distanza, anche nel momento ritmico alla “Voodoo” (King Diamond) e nella sfuriata in blast beat che porta ad un brevissimo assaggio di esaltante epicità, prima di concludere sbrigativamente con la morte della Tigre della Malesia, che ci lascia un po’ così… non goduti… ad ascoltarci il suggestivo e precoce finale.

Isla De La Muerte” è sicuramente un disco di qualità, anche se non credo proprio sarebbe il tesoro che porterei sulla fatidica isola deserta…

 

 

Marcello M

 

TrackList

  1. Broadside Attack
  2. Isla de la Muerte
  3. Bad Fortune
  4. Antigua
  5. Three Cheers to the Shanty Man
  6. Marauder
  7. Queen Anne’s Revenge
  8. Haul Away Joe
  9. Sandokan
  • Anno: 2023
  • Genere: Pirate Metal
  • Etichetta: Rockshots Records

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