TEJAS ASTRAS, ovvero le suggestive, potentissime, inquietanti e misteriose “armi ad energia” citate in antichissimi testi indiani: un gruppo con un nome e delle tematiche simili non potevano che attirare la mia attenzione!
Più che di un gruppo parliamo di un duo, un progetto in studio piuttosto recente, frutto della collaborazione tra i torinesi Denis Di Nicolò e Francesco Paternicò. Il primo è anche autore dei testi e delle performance vocali, mentre la componente strumentale è equamente distribuita, dato che entrambi smanazzano volentieri tra programmazione di strumenti virtuali e home studio recording.
La musica che ci propongono è piacevolmente spiazzante: di metallo ce n’è davvero poco, mentre si affacciano sonorità da vecchio pop elettronico, colonne sonore e un’atmosfera decisamente vintage e squisitamente notturna. Entrando più nello specifico, i riferimenti che sono emersi più prepotentemente ed esplicitamente attraverso il filtro delle mie orecchie vanno dalle colonne sonore minimali ed evocative di John Carpenter, al pop battagliero e ardito dei migliori dischi di Donatella Rettore, la melodicità meccanica di Alberto Camerini e il piglio epico delle sigle dei cartoni animati di quattro decadi fa. Un elemento che accomuna queste suggestioni può essere il cantato un po’ sopra le righe, unito ad una certa immediatezza. Gli arrangiamenti sono semplici, nitidi, scelti con sobrietà, cura e consapevolezza. Per le tematiche “spaziali” toccate, la rigidità ritmica data dagli strumenti simulati, l’utilizzo dei sintetizzatori e dei cori (e un vago senso di psichedelia), mi hanno ricordato anche una versione pop e ultra semplificata degli Oxiplegatz di Alf Svensson.
La produzione è amatoriale, ma nel senso migliore del termine: c’è tutta la magica imperfezione di un disco d’esordio, ma è tutto organizzato in maniera piuttosto limpida e, cosa fondamentale, i ragazzi sono riusciti ad ottenere un suono immediatamente riconoscibile e personale! Inoltre ogni brano propone un’idea. Lo so, queste considerazioni dovrebbero essere la premessa base per ogni disco, ma vi assicuro che non è così scontato avere il coraggio e l’onestà di esprimere un’identità tanto diversa e atipica. E proprio questa libertà (o ingenuità, chiamatela come volete) è l’elemento che ha fatto di questo album uno dei dischi che ho ascoltato più volentieri da quando ho iniziato a scrivere recensioni. La durata, di poco più di mezz’ora, rende l’esperienza concentrata e densa: l’ho interpretata come un atto di umiltà e consapevole autodeterminazione.
Certo il disco non è perfetto, ma è interessante. E credo sia un attributo assai più prezioso.
Un elemento che ritengo vincente è la scelta di cantare in italiano. La voce di Denis non è particolarmente allenata o addomesticata e a volte suona un poco farsesca (non so quanto intenzionalmente), ma non è priva di una certa espressività e varietà, capace di coinvolgere e di convincere (anche in virtù di una mancanza di modelli diretti di riferimento). Le linee vocali ricalcano spesso le melodie degli strumenti e hanno un sapore generalmente acerbo, ma per nulla sgradevole. Discorso analogo per i testi: nonostante alcune inesperte semplicità (rime coi verbi all’infinito, piccole forzature e salti di registro) è innegabile la capacità di tratteggiare un immaginario molto ben definito e potentemente icastico.
Dopo l’intro smaccatamente carpenteriana veniamo catturati da un semplice ma efficace giro di basso (dal suono tanto bello quanto “finto”) che grazie a un divertente gioco di accenti con la batteria appare più complesso di quanto non sia: è “Ritorno su Ki.En.Gi.”, che con la sua epicità inquietante e marziale mette subito le cose in chiaro. L’incipit “Siamo riatterrati su questa terra di bastardi” è uno dei più potenti che abbia sentito da un po’ di tempo a questa parte.
Accordi sospesi da duello western aprono e chiudono “La Tua Ultima Abduzione”, che in realtà è un brano molto incalzante e cantato con un’enfasi tale da suggerire scontri tra robot giapponesi sui tubi catodici della nostra infanzia. Curiosi i bruschi cambi di metronomo (una decina di bpm) tra le varie parti… Dato l’argomento, il testo lascia un pochino a desiderare, anche se restituisce una genuina ambivalenza che ho apprezzato.
Il testo di “Osservatorio” sembra scritto da un Franco Battiato alle elementari, ma nonostante sia un poco stucchevole aggiunge un altro tassello al panorama notturno del duo. Musicalmente in equilibrio tra le chitarre robuste presenti in apertura e nelle strofe e le tastiere ampie e punteggianti del ritornello, con cori siderali e una coda strumentale dove viene lasciato sfogare l’estro solista di Francesco, che coi suoi fraseggi edulcoratamente voivodiani si conferma ingrediente fondamentale dell’identità dei Tejas Astras.
Un battito cardiaco diventa ostinata pulsazione ritmica nel breve intermezzo strumentale “Illusione Genetica”, che nella sua concisione (un fraseggio con un paio di variazioni) riesce comunque ad esaurire il proprio sviluppo narrativo.
“Naufragio” è il pezzo più (relativamente…) impetuoso e articolato e mi ha ricordato, complice la batteria finta, qualcosa dei Lordian Guard di Bill Tsamis. Eppure con il suo vago sapore nipponico (presente anche in “Osservatorio”) non sarebbe stato poi così fuori posto su “Kamikaze Rock’n’Roll Suicide”! Esaurita rapidamente la (molto valida!) parte cantata, i restanti due terzi del brano rimangono strumentali e propongono diverse sezioni, tra cui la più interessante è quella che vede Denis alle prese con un’armonica utilizzata in maniera tanto rudimentale quanto efficace! Interessante il contrasto tra la precisione inesorabile degli strumenti programmati e la freschezza più “live” delle chitarre, che trovano qui un’altra ampia finestra.
L’ultima canzone vera e propria del disco è la lugubre e adrenalinica “Un Altro Lato Della Notte”, aperta ancora una volta dall’artificialmente bellissimo suono di basso che ci ha accompagnati per tutto l’album. Una sorta di horror story tra King Diamond e i Decibel di Enrico Ruggeri, in una corsa da perdere il fiato! Mi piacerebbe continuare ad ascoltare il gruppo in brani come questo, che riescono a racchiudere atmosfera, energia e narrazione in una piacevolissima facilità di ascolto che non ha nulla di banale!
Il breve disco si chiude con la strumentale “Sumerian Company”, dilatata tra arpeggi sospesi, fraseggi arcigni e melodie oblique che confermano l’atmosfera onirica e inquieta dei brani precedenti.
Il Cd è corredato di un ricco libretto che dedica un’immagine (e una doppia facciata) ad ogni brano e, per assemblato con materiale molto eterogeneo rastrellato sul web, ha una sua coerenza e dignità. Vale la pena sfogliarlo anche solo per la bellissima foto della band che imbraccia i propri strumenti…
Spero di sentire presto nuova musica da parte di questi ragazzi, ai quali va il mio applauso per la determinazione nel portare avanti un discorso musicale slegato da ogni tendenza, anacronistico e temerario. La musica dei Tejas Astras non è “difficile”: si propone con una certa accessibilità e generosità nei confronti dell’ascoltatore, è ben registrata e ha una grande capacità di comunicare il proprio mondo. Sta a noi la volontà di ascoltarli, di affrontare qualcosa di insolito, con il probabile esito di ritrovarci a specchio molto più di quanto non avremmo immaginato: una buona parte di noi stessi!
Marcello M
TrackList
- Atterraggio – Nuovo Incontro
- Ritorno Su Ki.En.Gi.
- La Tua Ultima Abduzione
- Osservatorio
- Illusione Genetica
- Naufragio Sconosciuto
- Un Altro Lato Della Notte
- Sumerian Company
- Anno: 2020
- Etichetta: Autoprodotto
- Genere: Rock
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