Oggi ci troviamo di fronte al disco di debutto dei Malignance, maestri indiscussi del black metal oltranzista e tradizionalista, che nel 2003 abortirono questo album, fulmine a ciel sereno che rinnovò una scena all’epoca stagnante e priva di punti di riferimento.

La capacità di plasmare la nera fiamma senza snaturarne la sua profonda essenza è la formula vincente che sta alla base dei Nostri, che si son sempre dimostrati fedeli ai dettami del nero verbo, mantenendo uno spirito sincero e genuino che poggia saldamente le proprie basi su un black metal primordiale poco incline al cambiamento ed alle mode. Questo è un discorso senz’altro complesso e di altissimo valore culturale, e va ben oltre la componente prettamente musicale. Che sia una pura questione spirituale o metaforica piuttosto dichiarata, sussiste una stretta connessione tra un preciso modo di percepire la realtà e il black suonato.

Tale concetto è lo spirito che fornisce vita eterna al gruppo: andare alla ricerca di melodie che non siano solamente dei “buoni riff”, ma che accolgano in essi rimandi psicofisici ed empatici che vanno a palpare morbosamente quel qualcosa appollaiato “al di là” del Mondo rappresentato. Summa di un percorso lungo, attraverso il quale il gruppo ha saputo arricchire il proprio sound di nuovi elementi atmosferici che rendono ancor più mefitico e mistico il black metal ferale e violento proposto, il gruppo genovese riesce a plasmare il proprio black metal, nero come la pece e gelido come gli inverni delle terre cui la loro musica è figlia, senza snaturarne l’essenza intima e passionale creando un disco che sarebbe potuto uscire nei primi anni novanta ma che risulta attuale ed al passo coi tempi.

Ciò che immediatamente scuote l’ascoltatore è il talento di unire elaborati rallentamenti, costruiti attorno a granitici riff, a momenti nei quali la furia acceca. L’approccio di per sé non è totalmente brutale, anzi per certi versi è misurato, ma proprio per questo riesce nel suo intento di centellinare il songwriting, (ri)portando l’ascoltatore ai fasti del black metal old school tipico del 1994: le distorsioni strazianti e raggelanti, conferendo al disco un sapore infernale, di caos e inquietudine, una forma di violenza controllata e ragionata che sovente si lascia andare a esplosioni di efferatezza per poi riprendere le redini delle composizioni e dipanarsi in midtempo oscuri. Le vocals, l’urlo che squarcia il fruscio dei riff, preludio di una oscura cavalcata, lentamente si stemperano dopo aver toccato l’apice dell’espressività, mutando in una progressione la cui guida è la componente melodica. Si tratta di un continuo dialogo apollineo-dionisiaco, citando Nietzsche, in cui nessuno dei contendenti riesce a piazzare la stoccata vincente, la battuta sagace.

I brani sembrano susseguirsi in mondo atavico, quasi dominati dalla legge naturale, di cui l’uomo rispettava rigidamente i precetti, dove le mani degli strumentisti sembrano esser state sfiorate dalle labbra di qualche divinità a cui hanno tributato un sacrificio.

Probabilmente le parole sono riduttive, imperfette, inadeguate per parlare di grandi album come ‘Regina Umbrae Mortis‘, dove violenza, atmosfera, sincerità d’intenti e incoscienza convergono come ad un gran ballo.

Giuseppe ‘Dissected’ Patella

 

TrackList

  1. Intro
  2. The Lament’s Configuration
  3. Statement Of Supremacy
  4. Deadhead Lodge
  5. Regina Umbrae Mortis
  6. Horror Vacui
  7. Fornicate With Pestilence
  8. Inverted Pantheon
  9. Nameless Paradox

 

  • Anno: 2003/2020
  • Etichetta: BTOD
  • Genere: Black Metal

 

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