Qui si punta in alto!

Gli Altair sono una band prog/power Emiliana (Ferraresi, per la precisione) alla loro seconda prova in studio dopo il buon esordio Lost Eden, uscito nel 2013. Il combo è costituito da Simone Mala (cantante), Luca Scalabrin (basso e cori), Gianmarco Bambini (chitarre), Albert Marshall (chitarre), Enrico Ditta (tastiere) e Simone Caparrucci (batteria e percussioni).

Se il loro debutto, pur buono, suonava in parte ancora acerbo (va detto che erano gli anni in cui i nostri si stavano facendo le ossa e dovevano costruire la loro esperienza) qui assistiamo a un vero e proprio salto di qualità.

Iniziamo col parlare delle capacità di questi ragazzi. Ci troviamo di fronte a un collettivo di musicisti preparati e sicuri delle proprie abilità. Tecnicamente dotatissimi, sanno come non scadere nella trappola del “mettersi in mostra” e fanno dono all’ascoltatore di validi momenti musicali. Una nota di merito va al cantante Simone Mala e al batterista Simone Caparrucci. Il primo ha una voce decisamente particolare – tecnica ai massimi livelli, sia chiaro – che si segnala per il proprio calore ed espressività. Il secondo, pur menando fendenti come un dannato, è capace di trovare soluzioni interessanti e di grande gusto, tecnica ritmica elevata messa al servizio della musica (come sempre dovrebbe essere). Poi è il turno dei due chitarristi. Non c’è molto da dire, a parte dirne bene: assoli incredibilmente stridenti (ma sempre gradevoli) e chitarre che si scambiano convenevoli a non finire. Stesso discorso per bassista e tastierista: il loro lavoro non è certo di secondo piano e contribuisce alla riuscita di una proposta che è identificabile come un ottimo insieme di brani, sia nei testi che nelle musiche. Per la band è una prova da manuale, dove i ragazzi riescono nell’intento di non sclerotizzarsi su matrici ormai lise e consumate, con canzoni rovinate dall’abuso di assoli esageratamente lunghi e veloci, della doppia cassa a elicottero o da parti vocali impostate su registri esclusivamente acuti.

‘Descending: A Devilish Comedy’ è un concept album power/prog dove troneggiano melodia e solennità abbinate a riffs rocciosi e massicci. In appena 41 minuti i nostri propongono un’analisi, un viaggio nei meandri più cupi e tetri della psiche umana, dove risiedono le nostre paure più recondite le quali, senza rendercene conto, finiscono quasi sempre per condizionare negativamente le nostre scelte di vita. Una (possibile) rappresentazione teatrale scandita da 9 movimenti perfetti. Un album che difficilmente riuscirete a togliere dallo stereo.

Dopo l’ottima intro ‘Descending (appunto) si entra nel vivo con ‘Path of Worms, la prima vera song del concept, decisamente catchy e assimilabile, alla quale fa quasi da contrappunto la successiva ‘Limbo, decisamente più cupa e minacciosa. Si tratta comunque di due canzoni di indubbia qualità (anche per i testi, sì). Il meglio arriva però con la stupefacente ‘Seven (uno dei picchi di questa fatica): incredibilmente variegata, non accusa alcun cedimento di sorta e le soluzioni trovate dai due chitarristi (passaggi magnifici), dal tastierista, il tappeto sonoro costituito da basso e batteria e la prova vocale di Simone (che qui mette in chiaro tutte le sue potenzialità di cantante completo) sono delle vere e proprie dimostrazioni di gusto. Da ascoltare a ripetizione! Seguono le ottime ‘Godless’ e ‘Seeds of Violence, che contribuiscono a mantenere alta la caratura di quest’opera e dove il vocalist si dimostra autentico maestro di cerimonie. Arriva poi il momento del secondo apice: ‘Flame of Knowledge. Introdotta da un fantastico riff di tastiere e variegata come poche (splendido l’assolo di chitarre posto proprio a metà della struttura) è un piccolo capolavoro come da tempo non se ne sentiva nell’ambito power/prog e nel metal in generale. Forse la prova migliore del disco per quello che riguarda il singer. Da ascoltare senza chiedersi nulla.

Frozen Graves è una mazzata dalla struttura quasi thrash e dove la voce di Simone si fa abrasiva e al vetriolo (il talento non è acqua) e in questo contesto è quasi un passaggio a sé stante. Ma non importa, perché la bellezza dell’insieme viene ribadita anche in questo caso (fiore all’occhiello i due assoli di chitarra à la Megadeth del periodo Friedman e dei Judas Priest di ‘Painkiller’, ascoltare per credere). Brevissimo ma estremamente efficace il pestaggio conclusivo di batteria, quasi a voler schiaffeggiare l’ascoltatore. Terzo capolavoro e conclusione dell’opera con ‘A Lesson Before Ascending, canzone che riprende dentro di sé tutte le caratteristiche che sono state fin qui proposte. Splendide le tastiere (passaggi di grande gusto) e le variazioni del cantato: Simone è uno di quei cantanti che non si lasciano mai andare e che dimostra nuovamente cosa voglia dire saper utilizzare l’espressività prima ancora che la tecnica (che mai manca, se fosse il caso di ribadirlo). Un’altra particolarità qui riscontrabile è lo straordinario bagaglio classico di cui i due chitarristi sono dotati: gli assoli nella prima parte non lasciano dubbi. Una vera gioia per le nostre coronarie.

Gli Altair ci regalano un disco che non dimostra cedimenti di sorta e risulta piacevole nonostante la complessità delle partiture. La loro abilità risiede nel presentare un lotto di canzoni che vanno sempre dritte al punto, nonostante le numerose varianti, e non stancano mai l’ascoltatore. Certo una qualità non da poco, specialmente in tempi come questi.

Un gruppo veramente prezioso per il panorama musicale italiano.

Attendiamo fiduciosi la loro prossima fatica, godendoci intanto questo capolavoro che tanti punti dà a moltissimi gruppi power, di casa e non.

Fabrizio Travis Bickle Zànoli

TrackList

  1. Descending
  2. Path of Worms
  3. Limbo
  4. Seven
  5. Godless
  6. Seed of Violence
  7. Flame of Knowledge
  8. Frozen Graves
  9. A Lesson Before Ascending
  • Anno: 2017
  • Etichetta: Sleazy Rider Records
  • Genere: Power Progressive Metal

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