Voto: 7.5

Nel corso dell’ultimo decennio e dopo aver attecchito a livello internazionale, il fenomeno delle frontwomen band è riuscito a ritagliarsi il suo spazio e a crearsi una cospicua schiera di proseliti anche all’interno dei confini italiani. A mio avviso, contrariamente agli atteggiamenti carichi di misoginia che troppo spesso si riscontrano nel mondo della musica estrema, un successo simile è stato possibile proprio perchè molto spesso il connubio metallo-gentil sesso dimostra di saper funzionare in maniera eccellente da un punto di vista strettamente tecnico. Ed è questo il caso dei While Sun Ends, un gruppo capace di confermare l’ottimo momento di forma del metal tricolore, attraverso una proposta davvero interessante, ma specialmente mediante l’ottima prova fornita da una vocalist in grande spolvero.

The Emptiness Beyond”, primo full-length del combo bergamasco, è un prodotto eclettico, raffinato e ben suonato, che convince in particolare per l’alto tasso di fluidità con cui si snoda tra delicate melodie oniriche e scenari evocatori di angoscianti incubi. La matrice del sound è di chiara astrazione death, anche se, considerando la notevole attitudine sperimentale mostrata a più riprese, sarebbe decisamente riduttivo collocarlo in un genere specifico. Non dominano infatti né il bianco né il nero, anzi piuttosto un variegato e coraggioso oceano di grigi, che sa coniugare tra loro diverse influenze: nello specifico, le sonorità psichedeliche e cadenzate (ma cangianti), tipiche degli americani Isis, e uno stile che richiama alla mente i nostrani Novembre, tanto per la propensione al progressive, quanto per le tipiche atmosfere gotiche abilmente disegnate. In realtà, non si tratta di una scoperta in senso assoluto, poiché la volontà della band di abbracciare soluzioni differenti si era palesata, seppur a sprazzi, già nel demo di debutto (“Exile”, 2009), ma è fuori discussione che, a distanza di circa due anni, ci sia stato un evidente cambio di marcia, nonché un apprezzabile arricchimento che coinvolge ogni aspetto dell’opera in questione.

Nello specifico, quest’intensa particolarità compositiva è tangibile già a partire dall’opener “Last Moments”, dove l’apertura e la chiusura, caratterizzate da un riffing incalzante e voce gutturale, sono intramezzati da un break melodico-meditativo, scandito da clean vocals e leggeri arpeggi. Da qui in avanti, i frequenti cambi ritmici e le volute dissonanze vocali/strumentali continueranno a farla da padrone, conferendo all’intero cd una lodevole imprevedibilità, senza per questo perdere in immediatezza, e mantenendo di fatto una certa omogeneità. A tal proposito, se “Self Made God”  è certamente il brano più singolare e ricercato dell’intero lotto e, di conseguenza, lo spot migliore per rappresentare l’unicità di questo album, “Winter”, al contrario, è quello più ordinario, se non altro in termini di facilità di ascolto.

Tuttavia, a prescindere dalla canzone in questione e a costo di sembrare ripetitivo, ciò che colpisce maggiormente di questi ragazzi è la forte soggettività con cui sono riusciti a far proprie correnti affini, ma dissimili, per poi rielabolarle in un secondo momento secondo i propri canoni, dando vita a un lavoro originale e spiccatamente personale. In tal senso, “Concubine”, con i suoi otto minuti e una struttura alquanto complessa, è senza alcun dubbio la traccia che più avvalora la mia tesi, visto che ha il merito di mettere in luce l’abilità di spaziare tra un genere e l’altro, unitamente alle qualità tecnico-compositive del quartetto lombardo. A conti fatti, quest’ultimo si esprime sicuramente con perizia in tutti i suoi membri, anche se, come asserivo pocanzi, al fine di un buon risultato appare decisivo l’operato di Serena Caracchi. La vocalist, in effetti, oltre ad essere veramente credibile nella doppia veste di eterea fata e graffiante demone (“No Door Room” ne è un’ottima prova), è soprattutto inappuntabile nell’alternare con sicurezza le due tipologie di cantato: in altre parole, è lei a determinare, più degli altri, la positiva riuscita del disco, portandolo a meta in completa scioltezza. In definitiva, siamo al cospetto di un progetto indubbiamente pregevole che, tra gli innumerevoli punti di forza, ha in un’autoproduzione ammirevole, ma non sufficiente, il suo unico neo.

Ovviamente, il mio porre l’accento su una simile problematica non ha assolutamente valenza di critica, bensì mira a sottolineare quanto i  While Sun Ends meritino di ricevere le giuste attenzioni da una buona etichetta, che sappia sviluppare appieno un potenziale davvero importante. Nel frattempo, faccio loro i miei più sinceri complimenti

 

Davide Khaos

 

TrackList

1. Last Moments

2. Stage

3. Reminiscence

4. Winter

5. Self Made God

6. Concubine

7. Sarvar

8. No Door Room

 

  • Anno: 2011
  • Etichetta: Autoprodotto
  • Genere: Black Metal

 

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