Voto: 8.5

I Void of Silence sono una band formatasi nel 1999, nella vasta, quanto inspirata, scena musicale capitolina, grazie a Riccardo Conforti (batteria, tastiere e synth), Ivan Zara (chitarre e basso), i Nostri hanno creato un difficoltosa sincresi, in bilico tra: gothic, ambient, dark-wave, elementi industrial ed elettronici, un ossessivo e dilatato doom, quantunque, intinto a sferzate black-metal (influenza al momento estinta), e, infine, senza disdegnare lunghi e tecnici vagabondare in territori progressivi.
Era il 2004 anno della pubblicazione di “Human Antithesis”, album del successo e dell’entusiasta critica, ma di seguito, e direi di contraltare, come se si applicasse la legge dantesca, il contrappasso del silenzio, la staticità, l’aridità e il ridursi all’appiattimento di ogni idea, ergo, l’approdo all’estinguersi di un futuro. Lungo è il passaggio, il percorrere e il realizzare di un nuovo progetto, passando per anni travagliati, risultanti in separazioni, allontanamenti, conseguenti reunion, e, infine, l’approdo a un nuovo ritrovarsi ed elaborare novelli spunti musicali. Sei lunghissimi anni in cui le cose sono mutate, a iniziare dal nuovo vocalist Brooke Johnson, già negli Axis of Perdition, al posto del defezionario Alan Nemthenaga (Primordial). L’intervallarsi di un lungo periodo, se si considera ciò dal punto di vista del mercato discografico, difatti, già una manciata di anni potrebbe far soccombere, a livello di marketing, pressoché tutte le comuni e normali band, a oggi sul mercato; ma, appunto, fin qui si è parlato di normalità, i VoS non sono una band normale, donando un’accezione positiva al termine, ogni album, ogni idea procreata, non possiede un’indole meramente commerciale, al contrario raffigura una vera espressione d’arte, schiva alle regole del mercato. Ogni creazione illustra un trip avanguardistico, atteso e bramato, dalla critica internazionale, quindi, che siano due, tre, dieci gli anni di attesa, questo muoversi indolente non sembra intaccare la voglia di un nuovo vagito in casa Silence.
La proposta del gruppo risulta, analogamente al proprio marketing, sfuggente, irregolare, in catalogabile, non è pensabile incorniciare l’operato all’interno di recinti, canoni e schemi precostituiti. Il Loro è un linguaggio personale e autoctono, su cui qualsiasi nomenclatura e appellativo risulta sintetico, riduttivo e fuori contesto, di conseguenza la materia musicale non è facilmente analizzabile, bisognerebbe esaminare le tracce in profondo, applicando una metodica analisi musicologica, per questo motivo, e in questa sede, una critica brano per brano è fuori luogo.
L’introduzione del disco “ Prelude to Death of Hope”, è l’unico brano di media durata, la partitura contestualizza l’ascoltatore in un territorio, in cui tutto è sacro e profano, allo stesso tempo, una commistione di positivo e negativo, come se le due opposte componenti si unissero all’unisono in un territorio neutrale, dove tastiere enfatiche, accompagnate da corali dallo stilema gregoriano, preludessero a lande sconfinate e desolate. A conferma di ciò, al seguire dell’atmosferico preludio, lunghe costruzione melanconiche, intrise di un doom disperato, costruite su synth, dal carattere fortemente evocativo, sono ritmate da un drumming cadenzato, che rammenta un procedere decisamente marziale. Tutto ciò fa da intelaiatura per le elaborazioni vocali di Johnson, a suo perfetto agio nelle trame disperate, qui sviscerate. La sua voce, direi superlativa, il più delle volte andante all’unisono con le composizioni, crea un coinvolgente abisso evocativo, all’inizio seducente cui è facile lasciarsi andare, ma che con il passare dei lunghi interminabili minuti, si fa sempre più greve, avvolgente e annichilente. La sensazione che si riceve, e nasce spontaneamente entro l’ascoltatore, è un profondo, freddo e raggelante intimo sentire. “In Grave of Civilization” non vi è né calore, né torpore, un ipotetico caloroso sentimento, in questo contesto, è alieno. A dar manforte a questa mia ipotesi, in merito, alla glacialità insita in queste partiture, l’art-work del disco supporta e conferma il mio personale dire. L’immagine di un uomo, appena abbozzato graficamente, reso piccolo e bianco, quasi nell’indicare la sua incolore piccolezza, sembra spaurirsi al cospetto di squadrate e immense architetture di uno sfumato blu profondo, come a determinare un colore caratteriale, che la minuta e bianca grafica forma umana, al contrario, non possiede. Monotone rigide strutture trionfali, prive, nella loro staticità, di una visione artistica, che paiono uscire direttamente dal nostro oscurantista e dittatoriale ventennio novecentesco, imperano e velano il distinguibile in copertina.
Penso sia questo il tema riconducibile in musica e parallelamente in grafica, cioè, lo spaurirsi e lo smarrimento dell’uomo, oramai, disequilibrato e smarrito al cospetto delle stesse sue creazioni, come se l’opera sua, avesse sostituito la natura, e quindi, le naturali architetture di madre terra, a favore di finzioni e di artefatte costruzioni, miranti all’inaridimento dell’umana artistica e visionaria anima. Di parallelo la musica raggelante dei VoS enfatizza lo spaurimento dell’uomo in preda a questo suo gelido evo, scatenato e mosso, ora, contro se stesso.

 

Nicola Pace

 

TrackList

1. Prelude to the death of hope
2. The Grave of Civilization
3. Apt Epitaph
4. Temple of Stagnation (DFMI MMX)
5. None shall Mourn
6. Empty Echo

  • Anno: 2010
  • Etichetta: Code 666
  • Genere: Doom Metal

 

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