Voto: 9
Dopo aver recensito gli Schizo, torno a parlarvi di un disco del passato, stavolta facendo un salto all’indietro di tre lustri e fermandomi al 1995, anno di uscita di Alkahest, sesto album in studio firmato Paul Chain, in cui il pioniere del dark sound italiano e talento di culto riconosciuto soprattutto all’estero abbandonò il sentiero dell’elettronica da lui a lungo battuto nelle opere immediatamente antecedenti a questo lavoro e tornò ad esprimersi nel linguaggio del rock duro di ispirazione settantiana, con un occhio di riguardo per il suono codificato da un gruppo di Birmingham che, insieme a non molti altri, può a buon diritto meritarsi l’appellativo di “seminale”: i Black Sabbath. Per Alkahest, termine coniato nel Cinquecento dall’alchimista svizzero Paracelso, che designa il solvente universale capace di sciogliere qualsiasi sostanza, persino l’oro, il musicista pesarese strinse una “alleanza cosmica” con Lee Dorrian, frontman dei Napalm Death prima e dei Cathedral poi, di cui è tutt’ora il leader indiscusso. Come dire, la vecchia guardia incontra la nuova (almeno per l’epoca, perché oggi Dorrian può essere considerato un veterano a tutti gli effetti). Coadiuvati da uno stuolo di musicisti del “giro” di Paul Chain – dai batteristi Erik Lumen e Lux Spitfire ai bassisti Fabrice Francese e Robert Jacomucci, passando per il tastierista Mario Mariani – i nostri diedero vita a un disco molto intenso, a tratti emozionante, tagliato su misura per gli amanti del doom metal, ma non solo. La prima metà è cantata da Paul Chain, con il suo linguaggio puramente fonetico ma così incredibilmente simile all’inglese e la sua particolare timbrica evocativa e androgina, mentre la seconda è appannaggio della voce più brusca e penetrante di Dorrian, che interpreta testi in vera lingua inglese. Ma andiamo con ordine nella nostra trattazione track by track. L’apripista è “Roses of Winter”, caratterizzata da un’andatura e da un riff maestro che somigliano in maniera impressionante a quelli di “Children of the Grave”: un inizio veramente tonante! In “Living Today” le movenze sono pesanti, ravvivate da stacchi groovy; la chitarra di Chain è un tributo al nume tutelare Tony Iommi, con un assolo esemplare, e il cantato esterna forti connotazioni melodiche. “Sandglass” esplode in un riff doom non solo nel senso musicale, ma anche propriamente linguistico: esiziale, apocalittico. Un organo dark-prog spunta tra la spessissima coltre di suoni chitarristici, mentre i ritmi lenti assumono un tantino di brio in più. La successiva “Three Water”, dopo un’apertura in stile “Carmina Burana”, si sviluppa come una pesantissima marcia sabbathiana; dal magma lavico dei riff emerge un solenne refrain tastieristico, e gli assolo sono free e lisergici. “Reality” è un lungo esercizio sulle orme del Sabba Nero senza particolari squilli, poi “Voyage to Hell”, versione riregistrata del celebre brano presente sull’EP del Paul Chain Violet Theatre, Detaching from Satan (1984), dà il via alla partecipazione vocale di Lee Dorrian e non subisce soverchie variazioni, risultando tuttavia più corposa nei suoni e orrorifica negli arrangiamenti. Dorrian è assolutamente straripante e la chitarra di Chain dispensa a piene mani… pardon, corde, suoni wah-wah e distorti. “Static End” vede una cruda interpretazione da parte del cantante albionico, che si ammorbidisce nei ritornelli, sorta di cupi spoken word; la struttura ritmica è lineare e su di essa la chitarra ricama assolo dark/psych senza soluzione di continuità. Dopo una “Lake Without Water” (per sole chitarra acustica, tastiere e voce) liquida e psichedelica che cita i Black Sabbath di brani quali “Solitude” o “Planet Caravan”, il finale è tutto per “Sepulchral Life”, che prima procede a passo d’uomo, per così dire, poi l’impatto si fa più fisico (cogliete anche voi qualche reminiscenza dei Celtic Frost?). L’ultima porzione torna ad essere imprigionata nelle spire di un doom funereo, “contaminato” però da una buona dose di acidità, specie nell’assolo. Un pezzo in cui si coglie nettamente l’impronta dei Cathedral. Da notare che la traccia vera e propria dura circa 9 minuti, poi, dopo un silenzio di quasi 10 minuti, parte una poesia-litania nera recitata con tono sepolcrale (in linea con il titolo) da Lee Dorrian, che mette brividi di paura addosso. Arcano, ossianico, magnetico, ma soprattutto schietto e genuino. Tutto questo, e molto altro ancora, è Alkahest. D’altronde, come dubitarne, visti i suoi artefici? Non sono infatti molti gli artisti che possono vantare la cultura musicale di Paul Chain e Lee Dorrian, i quali si collocano senza dubbio tra i più degni epigoni del duo Iommi-Osbourne. Peccato che la loro collaborazione si esaurì con questo album e non ebbe alcun seguito. Anzi, Paul Chain è morto (artisticamente parlando!) nel 2003, per dar vita al progetto sperimentale P.C. Translate – abbandonato all’inizio del 2010 nell’intento di cercare nuove forme musicali e artistiche lontano dalla globalizzazione mediatica – sotto il nuovo pseudonimo Paul Cat. Dorrian invece è ancora sulle scene, eccome, con i suoi Cathedral, autori quest’anno del bellissimo The Guessing Game. Per chiudere, a 15 anni dalla sua pubblicazione, Alkahest è un’opera assolutamente da (ri)scoprire, e con questo articolo mi auguro di invogliare i nostri lettori a fare ciò.
Costantino Andruzzi
TrackList
01. Roses of Winter
02. Living Today
03. Sandglass
04. Three Water
05. Reality
06. Voyage to Hell
07. Static End
08. Lake Without Water
09. Sepulchral Life
- Anno: 1995
- Etichetta: Godhead/Flying
- Genere: Dark Doom
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